l'intervista

lunedì 29 Luglio, 2024

Maria Rescigno ha vinto il premio «Women in cancer» per la sua ricerca: «Questa è innovazione e benessere. L’Italia non l’ha capito»

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Immunologa e oncologa, è stata tra le pioniere e oggi è tra le massime esperte: «Nel nostro corpo c'è un vero ecosistema. Se non è in equilibrio nascono patologie»

Studiare i tumori, lottare per prevenirli e curarli, attraverso il complicato ecosistema di microrganismi che abitano il nostro corpo. E che ne controllano, a nostra insaputa, molte funzioni fondamentali. È un settore della ricerca, quello sul «microbiota», ancora poco conosciuto al grande pubblico, di cui Maria Rescigno, immunologa e oncologa, è stata tra le pioniere e oggi tra le massime esperte. Docente alla Humanitas University di Milano, Rescigno ha vinto il premio «Women in cancer» assegnato dalla Fondazione Pezcoller, con cui in precedenza ha collaborato, ed è stata a Trento nell’evento organizzato dalla Fondazione per promuovere il volontariato, che pratica da sempre.
Professoressa Rescigno, qual è il percorso che l’ha portata a essere una studiosa di riferimento nel campo dell’immunologia?
«Quando ho iniziato mi interessava studiare soprattutto i processi biologici. Mi occupavo di biochimica, ma erano studi molto lontani dall’avere un’applicazione clinica medica. Ho cercato quindi di avvicinarmi a una ricerca che avesse maggiore impatto sul paziente. Quando mi sono resa conto che nell’intestino conviviamo con una quantità enorme di batteri che il sistema immunitario tollera molto bene, ho cominciato a chiedermi come mai, e quale fosse il ruolo di questi microrganismi, ora chiamati microbiota. È da lì che è nato il mio interesse per questa quest’area che mette insieme tante cose: immunologia, microbiologia, ma anche l’alimentazione, e anche alcune patologie, compresi i tumori».
Il ruolo dei batteri nel nostro organismo è poco conosciuto dal grande pubblico. Ce lo racconta?
«Il microbiota non è costituito solo da batteri, ma anche lieviti, funghi, virus, parassiti: un vero e proprio ecosistema situato nel nostro intestino. Il numero di questi organismi supera quello delle cellule umane anche se, date le piccole dimensioni, occupa uno spazio minore. Tali organismi aumentano di circa 100 volte il nostro genoma. Tantissime funzioni anche fondamentali, che un tempo pensavamo essere associate ai nostri geni, sono svolti da questi batteri: dalla digestione di alcuni cibi all’attivazione del sistema immunitario, a cui il microbiota fa un vero e proprio “training”. Come una sorta di palestra per spiegare al nostro corpo che esistono dei microrganismi da cui difendersi. Il microbiota influenza anche il nostro comportamento. E la sua composizione dipende anche dalla nostra dieta. Recentemente si è visto che con una composizione squilibrata, una disbiosi, può avere un ruolo importante nello sviluppo di una serie di patologie.
Inclusi i tumori.
«I pazienti con un tumore, qualsiasi esso sia, hanno anche una disbiosi. La domanda è se ne sia solo una conseguenza o se può esserne anche la causa. Oggi sappiamo che sì, alcuni ceppi del microbiota sono tumori-genici, cioè sono in grado di favorirne lo sviluppo. Analogamente, però, alcuni microrganismi sono invece anti-tumorigenici, cioè li contrastano».
Questo apre a strategie per prevenirli o curarli?
«Si è visto che alcuni pazienti che rispondono a determinate terapie hanno una composizione del microbiota diversa rispetto ai pazienti che invece non rispondono. E alcuni microrganismi che sono stati associati ad una migliore risposta. Il problema è che non sempre c’è consenso su quali siano i microrganismi associati alla migliore risposta: anche all’interno dello stesso tumore ricercatori diversi hanno spesso identificato microrganismi diversi».
Come si è posto allora il suo gruppo di ricerca?
«Ci siamo chiesti se, invece di identificare un microrganismo, si potesse identificare la sua funzione metabolica, che può essere svolta anche da microrganismi diversi. Da questo presupposto abbiamo identificato dei metaboliti che effettivamente hanno un ruolo nel migliorare la risposta alla terapia, per esempio rendendo la cellula tumorale visibile al sistema immunitario».
Anche se si dedica al microbiota, la sua ricerca si rivolge a persone reali con le loro speranze, sofferenze e paure. Come vive questi aspetti?
«Il lavoro del ricercatore è particolare: è lavoro senza orari, in cui tieni sempre occupata la mente. Un’idea può arrivare in ogni momento, richiede richiede dedizione e spesso le frustrazioni sono più dei momenti di gioia. Ci si sveglia al mattino con un pensiero e si va a dormire con lo stesso pensiero. E la soluzione a volte arriva nel momento più strano della giornata. Ma soprattutto, l’obiettivo finale è il bene di un paziente, e migliorare le condizioni del genere umano».
Lei si dedica anche al volontariato nel senso più classico del termine. Quanto è importante questa attività per lei?
«Oggi faccio ancora attività di volontariato con la disabilità. Oltre che agli altri, serve anche a me a liberare la mente. Il mio è un lavoro stupendo ma estremamente coinvolgente, così bisogna un po’ mollare la presa. Ho la fortuna di avere una bellissima famiglia e dei figli, ma aiuta anche avere una valvola di sfogo per capire che ci sono anche altri problemi, e altre cose che contano».
Ha vinto il premio Women in cancer con la Fondazione Pezcoller. Quanto è importante questo riconoscimento e il lavoro della Fondazione?
«È una fondazione di cui ammiro lo scopo e condivido i contenuti. In passato, per due anni, sono stata nel loro Comitato Tecnico scientifico: sono stata tra coloro che valutava i candidati ai premi. E ora, sì, ho vinto un premio anch’io, che mi sarà (è stato, ndr) consegnato a Rotterdam a giugno».
Lei fa parte di un’eccellenza della ricerca in un Paese che forse non le dà abbastanza importanza. L’Italia dovrebbe investire di più?
«Ricerca significa innovazione, e i Paesi che investono di più sono avvantaggiati anche in altri campi. Non a caso, durante la pandemia, i vaccini sono stati realizzati da paesi che credono più nella ricerca in senso lato – Stati Uniti, Inghilterra, Germania – mentre altri sono stati meno pronti davanti all’emergenza sanitaria. Anche qui dovremmo capire che più si investe in ricerca più si investe in benessere».