La sentenza
domenica 6 Ottobre, 2024
di Benedetta Centin
Condannato, a inizio 2023, a 14 anni di reclusione dal tribunale di Trento, pochi giorni fa, in secondo grado, un 66enne di origini marocchine si è visto ridurre la pena a un quarto, a una pena di 3 anni e mezzo. Riconosciuto colpevole di maltrattamenti su moglie e figli minori, assolto invece dall’ipotesi di violenza sessuale aggravata nei confronti dell’allora compagna, per episodi dal 2010 al 2019 (quelli relativi ai 20 anni prima sono stati cancellati dalla prescrizione). Soddisfatto l’avvocato difensore Giuliano Valer che aveva evidenziato che «non risultava l’assenza di consenso» da parte della parte offesa. «Assolto perché il fatto non sussiste» ha sentenziato la Corte d’Appello di Trento. Questo in base alle dichiarazioni della donna, sentita anche in aula, che ha spiegato come acconsentisse ai rapporti sessuali per «dovere coniugale», imposto dalla religione: «È vero che non avevo piacere di avere rapporti con mio marito (rapporti che voleva almeno due volte a settimana), però non ha mai abusato di me, mai mi sono sentita violentata, non è che lui mi obbligava. Era proprio per la mia religione: è un mio dovere e quando c’era da fare lo facevo per dovere. Se piangevo (senza ottenere alcun tipo di attenzione dal marito ndr) è perché non accettavo che dovevo farlo per forza per la mia religione» ancora il racconto, visibilmente sofferto, della cittadina marocchina più giovane di 14 anni che non si è costituita parte civile nel processo, che non ha quindi chiesto risarcimento. Una donna che, esasperata per le violenze e vessazioni subite per quasi 30 anni da quell’uomo che l’aveva sposata in patria quando aveva 18 anni, ha trovato il coraggio, dopo l’ennesimo episodio, di chiamare i carabinieri. E in seguito di denunciare, tanto che il padre dei suoi figli era stato arrestato, poi ristretto ai domiciliari, quindi raggiunto da un divieto di dimora a Trento e Bolzano. Tra le contestazioni della Procura di Trento, poi assorbite nei maltrattamenti, anche le percosse a moglie e figlia, quest’ultima presa anche a cinghiate, e la tortura, al figlio allora di sette anni che a scuola, in prima elementare, aveva preso delle note. L’uomo lo aveva chiuso in camera e legato con i piedi alla testiera del letto con i fili elettrici per dargli delle scariche, picchiandolo e spalancandogli la bocca. I maltrattamenti in famiglia contestati erano avvenuti tra Marocco e Italia dal 1991, un anno dopo il matrimonio, e fino al 2020. I giudici di primo grado avevano scritto di «brutali soprusi a donna e figli sin dalla tenerissima età», familiari «che non hanno praticamente mai reagito per timore di conseguenze peggiori». Stando alle contestazioni l’uomo dettava legge in casa – «Tu non puoi decidere, qui comando io» diceva – e sottoponeva la moglie a «sistematici atti di violenza fisica e psicologica», trattando la connazionale, come lei stessa ha ammesso, «come una serva o piuttosto una schiava», percuotendola e lasciandole pure i segni, non senza ingiurie e minacce di morte come «ti taglio la testa, sei immondizia». E capitava che buttasse giù dal letto a calci la donna per farsi servire il caffè o che scaraventasse i piatti per terra se non gradiva i pasti. E, ancora, le imponeva pesanti limitazioni alla libertà: nell’abbigliamento, nelle spese, controllando i suoi movimenti, tenendola chiusa in casa, impedendole contatti con terze persone, non permettendole di lavorare e nemmeno di ottenere la cittadinanza italiana. Per anni ha stabilito gli orari in cui la moglie poteva andare a dormire o guardare la tv. Aveva deciso pure quali persone poteva salutare quando andavano a fare la spesa. «Tutto quello che lui diceva era legge, padrone e basta» ancora le parole della vittima, che aveva tentato di fuggire. «Mi sento una sua proprietà» aveva riferito. Finita in una struttura protetta con i figli, la 52enne aveva manifestato la volontà di separarsi «ma ho paura» la confessione. Quando l’ha ottenuta ha detto «ora non mi distrugge più la vita, sono in pace».