L'intervista

mercoledì 3 Gennaio, 2024

Martalar, l’artista del legno. «Sono un montanaro autodidatta, la natura è la mia vita. I bambini mi difendono»

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Marco Martello in arte Martalar, si autodefinisce «scultore del legno e artista del bosco»

Marco Martello in arte Martalar, che si autodefinisce «scultore del legno e artista del bosco» ci ha recentemente consegnato la sua nuova opera: l’Haflinger di Strembo. Questo cavallo è energia allo stato puro, si presenta impennato sulle zampe posteriori e in posizione solo parzialmente eretta, riesce a trasmettere tutta la sua graziosa maestà in una forma artisticamente pregevole. Questo progetto complesso e affascinante, si aggiunge ad altrettanto imponenti sculture di animali quali l’Aquila di Marcesina (Grigno), la Lupa del Lagorai, il Drago alato di Lavarone, il Leone alato di Jesolo, il Cervo di malga Millegrobbe (Lavarone), il Gallo di Gallio (Vicenza), il Basalisc (Cevo), l’Ape di San Pietro Mussolino (Vicenza). Sono tutte opere d’arte di grandi dimensioni che oltre a simboleggiare la rinascita poiché ricavate con gli alberi abbattuti dalla tempesta Vaia nell’autunno 2018, sono capaci di trasmettere emozioni e sensazioni che ci raccontano della vita e delle idee artistiche di Marco Martello.

Martalar quale è la sua storia umana e artistica?
«Sono un autodidatta e fin da piccolo sono appassionato di disegno e scultura. Da montanaro la mia vita è strettamente legata alla natura, alla montagna e al bosco e, avendo a disposizione il legno mi è stato facile legare la mia arte al bosco. Dopo la tempesta Vaia, frequentando i boschi ho maturato l’idea che da un evento così tragico può nascere la bellezza e ho deciso di usare ceppaie e radici dopo che le ditte boschive hanno tolto gli alberi».

Che assonanza c’è tra un mucchio di radici abbandonate e l’opera finita?
«Il legno ritorto e spezzato da Vaia mi consegna qualcosa di forte, di vissuto e violento. In ognuna di quelle fibre avverto una forza e un’energia che hanno un loro perché, questo legname è vivo di suo e l’opera d’arte ne è quasi una conseguenza diretta, perché i pezzi che trovo immagino già dove potrebbero andare».

Ci racconta dell’Haflinger di Strembo e della sfida con sé stesso?
«A differenza delle altre opere non ho usato ceppaie d’abete ma di larice, perché il suo colore è molto simile a quello del cavallo. Il cavallo mi è sempre piaciuto e l’idea di farlo mi ha appassionato fin dall’inizio, poi ho pensato: diamogli un po’ di movimento, è troppo facile farlo con le 4 zampe a terra, anche se poi è stata una scultura difficile da realizzare, perché il suo peso è sbilanciato sugli arti posteriori. Con un ingegnere ho cercato il giusto compromesso tra la parte strutturale e statica e quella artistica e dinamica. L’Haflinger di Strembo misura 7 metri d’altezza e 5 di lunghezza, è composto con oltre 2.000 radici di larice abbattuti da Vaia, tenuti assieme da 1.800 viti. Fino a una certa altezza ho usato un trabattello e negli ultimi giorni una piattaforma aerea, non posso costruirci intorno un’impalcatura perché non vedo l’opera e non riesco a capirne le proporzioni, per questo continuo a scendere e guardare l’opera che cresce. Le radici intere sono state ridotte a pezzi con un macchinario poi, come con un mosaico, le ho collocate secondo un’idea che avevo in mente. Ho cercato di fare un cavallo buono con lo sguardo gentile, perché questi sono cavalli energici ma buoni».

Qual è la vita delle sue opere d’arte? Manutenzioni, controlli successivi, danni?
«Tendenzialmente non farei nulla, a volte mi viene chiesto di valutarne la manutenzione, da farsi solo se l’opera è molto frequentata. Io sono del parere che, essendo in legno volutamente non trattato, l’opera deve seguire il suo percorso naturale, quindi prevedere e accettare il fatto che, seppur robusta e fatta per durare molti anni, possa degradare. Non c’è stata nevicata o vento che abbiano fatto danni, purtroppo sto vedendo che i danni, perlomeno quelli più evidenti, sono opera delle persone. Anche se c’è la scritta non toccare, tra le migliaia di persone che vanno a vedere la statua c’è sempre qualcuna che non la rispetta. Vedi persone che toccano, che ci salgono sopra, che ne staccano un pezzo per portarselo via. Il danno più grosso è culminato nell’incendio del drago di Lavarone dell’agosto scorso».

Come ha vissuto l’incendio doloso del Drago di Vaia?
«Con grande amarezza, quel gesto ha fatto venir fuori un aspetto umano, che c’è sempre e non riusciamo mai a fermare. Per fare danni basta una persona sola, lo vediamo quando imbrattano tele, rovinano monumenti, spaccano opere che hanno una valenza artistica molto impattante. Dopo l’incendio del drago, sono state messe le telecamere a sorvegliare tutte le mie opere. Mi hanno stupito tantissimo i bambini di Lavarone. Di loro spontanea volontà si sono messi nelle piazzette a fare i banchetti dove vendere i loro disegni per raccogliere il denaro per ricostruire il Drago. Il loro obbiettivo era chiaro: vogliamo che rinasca il drago. Lo sentivano come un loro amico, non sono riusciti ad accettare il fatto non ci fosse più, hanno imparato il senso del bene comune. Ho trovato lo stesso sentimento nei bambini di Strembo che mi sono venuti a trovare. Sono convinto che, se qualcuno maltratterà il cavallo, saranno loro i primi a chiedere: cosa fai? Il cavallo è anche nostro, è di tutti».

Un consiglio, come ci si approccia alle tue sculture?
«Io sarei per un approccio silenzioso e suggerirei di avvicinarle con lo stesso atteggiamento di rispetto che dovresti avere nei confronti del bosco e della natura. Per vivere quel momento consiglierei di non andarci la domenica pomeriggio, dove è normale che ci trovi tanta gente, ma andarci all’alba o alla sera. Un aneddoto: qualche giorno fa, all’una di notte, con alcuni amici abbiamo deciso di andare a vedere l’aquila. C’era un grande freddo e vento “gambinico” però si è rivelata un’emozione grande. Anch’io non l’avevo mai vista di notte, è una cosa che ripaga molto, erano tutti stra-entusiasti. Sono stati momenti belli ed emozionanti, l’opera ha un fascino più profondo e forse la rispetti ancora di più».