L'intervista
domenica 14 Gennaio, 2024
di Francesco Barana
La bellezza di Massimo Bubola è che scava nel dettaglio e rifugge retorica e banalità. Ricorrono i 25 anni dalla morte di Fabrizio De André, e Bubola, cantautore, musicista e scrittore, che con Faber ha condiviso una lunga amicizia e un importante sodalizio artistico (realizzarono insieme musiche e testi degli album «Rimini» e «L’Indiano» a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 e la canzone «Don Raffae’» nel 1990, opere che la Sony quest’anno ristamperà), ricorda «la grande ironia e il senso dell’umorismo che aveva Fabrizio, qualità di cui pochi parlano».
Bubola invece non è sorpreso che De André sia più ascoltato oggi, anche tra i giovanissimi, di quando era in vita: «Certi artisti hanno bisogno di mettere una distanza tra loro e i tempi in cui vivono. È accaduto anche a Flaubert e Van Gogh».
Bubola, 69 anni, veronese, che ha all’attivo venti album da solista, collaborazioni anche con Fiorella Mannoia (è sua «Il cielo d’Irlanda»), Mia Martini, Milva, Mauro Pagani, Tosca e Grazia Di Michele, quattro romanzi (e un quinto in arrivo) e la traduzione dell’opera omnia di Patty Smith, in «Rimini» e «L’indiano» introdusse in Italia la «letteratura del rock», ispirandosi agli amati Bob Dylan e Rolling Stone, portando nuove sonorità a Faber, da sempre legato a Brassens e alla chanson francese.
Bubola, come conobbe De André?
«Era il 1975, avevo 21 anni. Eravamo entrambi nella stessa casa discografica, la Produttori Associati. Io avevo pubblicato un primo album, lui veniva dalla collaborazione con De Gregori in “Volume 8” e cercava qualcuno con cui lavorare al progetto di un nuovo disco. Ci fece conoscere Roberto Dané, il nostro produttore. Il primo incontro avvenne proprio alla Produttori Associati, che si trovava vicino alla stazione centrale di Milano. Poi iniziammo a vederci di tanto in tanto, ma inizialmente parlavamo di tutto tranne che di musica».
Poi cosa successe?
«Mi chiamò perché lo raggiungessi in Sardegna, nell’entroterra gallurese, a Tempo Pausania, dove aveva da poco comprato un terreno e costruito un’azienda agricola. Lì abbiamo cominciato a progettare di scrivere qualcosa insieme. Gli feci sentire un po’ di mie canzoni inedite e altre idee che avevo in mente. Gli piacquero e decidemmo di lavorarci sopra e di iniziare. Così nacquero le prime canzoni di “Rimini”, come “Andrea”, “Volta la carta” e “Rimini” che dà nome al disco».
De André era più «francese», lei più «americano»…
«Lui era legato a Brassens, Brel e Leo Ferré. La musica rock non era nel suo temperamento, anche se ammirava molto i testi di Bob Dylan. Infatti quando “Rimini” fu riarrangiato per la tournee con la Pfm, prese delle connotazioni più vicine alla sua natura e a come l’avevo concepito in origine».
«Rimini» e «L’Indiano» sono tra i 14 album che la Sony ristamperà per i 25 anni dalla scomparsa di De André. Come nacquero?
«Furono il frutto di mesi di condivisione, di vita quotidiana insieme, di riflessioni a tarda notte, di confronti e a volte di scontri. Fabrizio in quel periodo era oppresso da un forte alcolismo e fumava tantissimo, quindi incontrarci insieme non era sempre facile come tempistiche, però siamo riusciti poi a chiudere l’album».
Perché quei dischi sono ancora molto ascoltati?
«Furono ispirati dalla contemporaneità dell’epoca, ma con una visione legata alla storia. Infatti ci sono spesso citazioni di eventi del passato lontani e vicini, come la Santa Inquisizione, la rivoluzione cubana, la Caccia alle streghe, la Grande Guerra, il massacro di Fiume Sand Creek del 1867, la contestazione a Luciano Lama, leader della Cgil, all’università di Roma del 1977. Il nostro desiderio era raccontare il nostro punto di vista di fatti o vicende di un’epoca ricca di fermento e contestazioni».
Il sodalizio artistico tra lei e De André s’interruppe dopo due album di grande successo…
«Sentivo il bisogno di scrivere per me e di fare un album con sonorità più elettriche e più vicine alla musica che amavo e con cui ero cresciuto. Nacque l’album “Giorni Dispari”. Per quanto riguarda Fabrizio, era alla continua ricerca di musicalità e mondi che lo affascinassero e andò verso altre scelte e altri collaboratori. Ma continuammo a frequentarci, scendevo a Tempio Pausania ogni anno, a maggio: amavamo entrambi Edoardo De Filippo, il teatro e la canzone napoletana e decidemmo di scrivere qualcosa a riguardo, ma senza fretta».
Nacque così, anni dopo, «Don Raffae’»…
«Ogni volta che andavo in Sardegna da lui scrivevamo un paio di strofe. Alla fine la canzone fu inserita nell’album “Le Nuvole” del 1990».
«Don Raffae’» ha un successo enorme ancora oggi. A cosa vi ispiraste?
«Sentivamo il desiderio di raccontare l’eterno scontro fra Stato e antistato e di tutti i suoi paradossi. All’interno della canzone inserimmo poi delle citazioni delle commedie di Eduardo De Filippo, che ascoltavamo in cassetta».
Cos’ha significato per lei lavorare con De André?
«Mi ha dato la consapevolezza di essere un poeta e di saper comporre delle belle melodie e di poter fare della mia passione un lavoro. Se ero abbastanza bravo per lavorare con Fabrizio, che era un grande perfezionista e un severo maestro, allora sarei stato bravo anche per tutti gli altri. Ora scrivo romanzi oltre alle canzoni, ma metto in ogni parola la cura e la ricerca che ho affinato in quegli anni, ma anche in quelli precedenti da ragazzo al liceo classico, quando scrivevo poesie in latino e mi confrontavo su metrica e rima con il mio professore».
Umanamente cosa ricorda di Faber?
«Di lui sì è parlato moltissimo, è difficile dire qualcosa di nuovo. Però nelle interviste di amici e conoscenti sento sempre parlare poco della grande ironia di Fabrizio e del suo senso dell’umorismo. Pur essendo una persona di particolare intelligenza e profondità di pensiero, stargli insieme era spesso fonte di grandi ilarità e divertimento».
Prima, per spiegare il suo successo postumo, affermava che «certi artisti hanno bisogno di mettere una distanza tra loro e i tempi in cui vivono».
«Un po’ come quei quadri che riesci ad apprezzare veramente nella loro pienezza e complessità soltanto allontanandoti e raggiungendo una prospettiva più ampia, così Fabrizio e il lavoro che abbiamo condiviso aveva bisogno di staccarsi dal tempo in cui è stato concepito per essere messo a fuoco nelle sue profondità. Molti scrittori, come per esempio Flaubert, hanno avuto dei forti riconoscimenti a trent’anni dei loro libri. Per non parlare di Van Gogh e tanti altri. Vedo anche che molti dei miei venti album, che sono frutto di ricerca, letteraria, musicale e sonora continuano ad essere vivi perché sono ascoltati da molti ragazzi e oggetto di studio nei licei e nelle università».
Anni fa lei mi disse che «la cultura pop attuale ha ridotto le canzoni a spot, a piccoli, fugaci, effimeri successi, creando deserti sterili di sottocultura. Dipende anche dai discografici, che oggi in gran parte non hanno una lunga e profonda conoscenza musicale». È un processo irreversibile, oppure si può ancora credere nella musica e nella poetica di qualità?
«Bisogna continuare a crederci e a praticarla. Ci sono ancora tanti ragazzi con gli occhi che brillano, li incontro spesso ai miei concerti. Io cerco di tenere alta la bandiera e di andare dritto per la mia strada, quello che lasciamo è la nostra opera, lei parla e parlerà per noi. Credo che la qualità sia l’unica soluzione per salvare l’arte di massa come il cinema e la musica. È la qualità che può salvarci l’anima».
l'intervista
di Davide Orsato
L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)