il caso
venerdì 25 Ottobre, 2024
di Benedetta Centin
Rimasti orfani di madre quando erano ancora dei bambini, fratello e sorella avevano solo bisogno di affetto, di attenzioni, ma sono invece stati vittime di «sevizie e crudeltà», oggetto di «comportamenti disumani» che hanno provocato loro «gravi sofferenze», con effetti, a detta dei giudici, «che si porteranno dietro tutta la vita». I due, una ragazzina di 13 anni e il fratellino di 6, per circa tre anni hanno vissuto nel terrore, in uno stato di soggezione e tristezza, oltre che trasandati e sporchi, disperati ogni qual volta dovevano lasciare la scuola per tornare a casa, dove erano segregati al buio e al freddo anche per giornate intere. Dove non potevano cenare a tavola ed erano malnutriti, dove non potevano usare il bagno quando necessari e tantomeno lavarsi quotidianamente. Dove anche la scopa era un’arma. Dove erano accusati anche senza motivo. E allora erano lividi, ematomi. Maltrattamenti atroci, questi, e punizioni ingiustificate, anche corporali appunto, che erano diventate nel tempo sempre più frequenti. E gravi. A risponderne il padre, un cinquantenne trentino all’epoca dei fatti agente della polizia di Stato, da giugno, da quando cioè la sentenza è diventata definitiva, in carcere a Spini di Gardolo per scontare la pena patteggiata di 4 anni e 8 mesi di reclusione. Senza più responsabilità genitoriale, perché sospesa. Di 6 anni e 8 mesi invece, considerato anche lo sconto previsto dal rito scelto, e cioè l’abbreviato, la pena inflitta in primo grado — e confermata mercoledì dalla Corte d’Appello di Trento — alla nuova compagna, anche lei trentina, più giovane di oltre vent’anni. Fosse stato per la Procura doveva essere condannata a 8 anni. Lei, la matrigna, chiamava «mostri» i figli dell’uomo, imprecava spesso contro di loro, etichettandoli nel peggiore dei modi, «manifestando odio e malvagità fuori dal comune nei loro confronti» a detta dei giudici. Era lei quella che alzava le mani, che imponeva terribili castighi, anche immotivati, dimostrando un «comportamento malato e di natura malefica» riporta la sentenza. E delle stesse accuse, di maltrattamenti e lesioni aggravati e in continuazione, ne ha risposto in concorso anche il compagno: invece che impedirle, di salvaguardare i suoi figli, era diventato a sua volta l’«esecutore materiale» di quei maltrattamenti, e questo, secondo la Procura, per impedire che la giovane convivente si arrabbiasse, che se ne andasse o peggio che lo lasciasse. Tanto che il poliziotto si filmava mentre assestava «quattro sberle al giorno» alla figlia più grande, e mandava i video a lei quando ancora non convivevano. Lei che quando lasciava evidenti segni sul volto del più piccolo gli addossava la colpa raccontando che aveva sbattuto su un mobile. Oppure lo chiudeva in camera perché non mostrasse l’occhio nero e gli ematomi.
Il via all’inchiesta
Lesioni, anche su più punti del corpo, che hanno fatto sì che la pediatra facesse segnalazione e scaturisse l’inchiesta che ha portato a galla i terribili fatti avvenuti in Trentino tra 2018 e 2021, confermati poi anche dal personale della scuola frequentata dai minori. Determinante è stato comunque il racconto delle due piccole vittime, sentite nel corso di un’audizione protetta. Nominata loro tutrice l’avvocata Chiara Pontalti, difensore l’avvocato Alessandro Meregalli, che dopo la sentenza d’Appello nei confronti della donna commenta: «Ripeteva ai bimbi che, se avessero denunciato, nessuno avrebbe mai creduto che i figli di un poliziotto stavano subendo simili angherie. E questo deve essere di esempio per chi, ancora oggi, non denuncia nel timore di non essere creduto». Pensare che la trentenne aveva cercato di addebitare i diversi lividi sul bimbo alla sorellina più grande, se non fosse che la ragazzina ha scritto in lacrime un messaggio alla pediatra, smentendo la sua responsabilità, «ma non ho il coraggio di dire la verità» aveva confessato, terrorizzata da quella matrigna che le aveva anche attribuito la colpa della morte della madre. Matrigna che la minore non a caso definiva «Satana».
Le pesanti accuse
A quanto ricostruito i bambini erano puniti «per qualsiasi cosa», picchiati con sberle e calci, ma anche con il manico della scopa o altri arnesi in metallo. E segregati. Anche per giorni interi. Chiusi in una stanza al buio, con tapparelle abbassate, lì dove dovevano consumare i pasti velocemente (sempre la solita pasta), senza poter accendere la luce o far circolare aria — tanto che la stanza si era riempita di muffa — senza la possibilità di parlare tra loro. Fratello e sorella erano costretti poi a bere mezzo litro di acqua per non dover usare il bagno, che per questo rimaneva chiuso a chiave durante il giorno, così capitava che il piccolo si facesse la pipì addosso. Obbligati, ancora, a fare un’unica doccia a settimana, nonostante la necessità di lavarsi, con abiti— sempre gli stessi — che finivano in lavatrice una sola volta al mese. E poi c’erano i «castighi» che non consistevano solo nelle percosse (tra l’altro se rimanevano feriti dovevano anche pulire dal sangue quanto sporcato). «Castighi» che i due fratellini erano indotti a credere fossero meritati. Dovevano rinunciare anche allo sport, limitandosi alla sola casa e scuola. E capitava venissero mandati in garage, pure in piena notte, rimanendo al gelo. Come capitava la mattina: era lì che dovevano attendere di andare a scuola dopo essersi preparati in pochissimi minuti, senza fare colazione, senza andare in bagno, e questo per non rischiare di svegliare il bimbo nato dalla relazione del papà con la nuova compagna. Ed era capitato che alla figlia più grande, in inverno, lasciata solo con i calzetti e senza giacca nel giroscale, le si gelassero i piedi, al fratellino invece le mani. Quest’ultimo lasciato solo in mutande a patire il freddo anche in casa, dove non c’era riscaldamento. Scene aberranti, sconvolgenti, quasi da film dell’orrore, a maggior ragione perché si tratta di condotte protratte per quasi tre anni. Invece, purtroppo, è accaduto davvero, così come hanno ricostruito gli inquirenti e come hanno riconosciuto i giudici. Che hanno inferto pene totali per oltre dieci anni agli adulti maltrattanti, papà e compagna, che hanno anche risarcito le parti civili, lui lasciando una casa ai figli e una somma di denaro, lei condannata a risarcire 200mila euro. Soldi che comunque non restituiranno più un’infanzia serena e felice che dovrebbe essere scontata per ogni bimbo.
la storia a lieto fine
di Redazione
Un gesto di grande professionalità e coraggio quello che ha visto oggi protagonisti due professionisti del Santa Chiara intervenuti per aiutare la piccola nata durante la corsa in ospedale