L'intervista
mercoledì 2 Ottobre, 2024
di Claudia Gelmi
Maura Delpero non ha più un minuto libero da quando, con il suo «Vermiglio», ha vinto il Leone d’Argento a Venezia e solo poche settimane dopo il film è stato scelto per concorrere alle nomination per gli Oscar 2025 nella categoria Miglior film internazionale. Tra una trasferta, una presentazione in sala e un serratissimo programma di interviste, abbiamo parlato con lei di questo piccolo grande miracolo, che sta regalando alle migliaia di persone che accorrono al cinema per vederlo un affresco corale e allo stesso tempo molto intimo di quello che eravamo fino a pochi decenni fa, e dei luoghi – reali, culturali e dell’anima – da cui proveniamo.
Innanzitutto, come sta vivendo questa infilata di felici tsunami che l’hanno travolta?
«Davvero, arriva una notizia dopo l’altra, non ho ancora fatto in tempo a digerirle. Qualcuno mi ha chiesto se ero preoccupata per gli Oscar e ho risposto che sono talmente occupata che non riesco nemmeno a preoccuparmi. A di là della natura degli eventi in sé, è stata la concentrazione di tutto quanto in poche settimane, perché non ci sono stati solo il Leone d’argento e la selezione per concorrere agli Oscar, ma anche gli European Film Awards («Vermiglio» è nella shortlist, ndr), l’uscita nelle sale del film… Sono tutti eventi bellissimi e sono molto contenta, con una fisiologica stanchezza sostenuta dall’adrenalina. Mi sembra che si stiano concatenando molte cose belle».
In effetti si avverte molto amore attorno al film e a quanto sta accadendo.
«Sì, è proprio vero».
A tal proposito, fermo restando questo corale abbraccio del pubblico, quali corde crede abbia mosso «Vermiglio» nelle valutazioni delle diverse giurie? Stiamo parlando tra l’altro di un film che si pone totalmente fuori dal mainstream italiano e all’italiana.
«Ovviamente i riconoscimenti vengono da giurie e commissioni di addetti ai lavori e quindi emerge anche l’aspetto legato al linguaggio cinematografico. Devo dire che quando hanno nominato la giuria di Venezia sono stata molto contenta, ho proprio pensato: “Che bello, non è una giuria glamour, e quindi potrà apprezzare”. In giuria c’erano figure come sceneggiatori, registi, attrici del calibro di Isabelle Huppert, che è anche coautrice di tanti film. Sono persone che hanno colto la difficoltà dietro l’apparente semplicità. Credo che sia stata valutata positivamente quell’essenzialità del film, che è una scelta programmatica molto chiara di un linguaggio cinematografico. Soprattutto in questo tempo, in cui il cinema è tanto intrattenimento, didascalico e rassicurante, “Vermiglio” ripone un’enorme fiducia nel pubblico, gli offre un’esperienza forse passata di moda che però crediamo venga apprezzata e portata a casa».
È un film che si pone anche fuori dagli stereotipi della montagna così come viene rappresentata in molte produzioni, così come fuori da una concezione di paesaggio come vetrina.
«Io credo che il fatto di essere nata a Bolzano e di aver passato tanto tempo nella casa dei nonni a Vermiglio, di aver completamente integrato le montagne nella mia identità, non mi premeva proprio di avere lo sguardo da cartolina, non ce l’ho in modo più assoluto, perché per me le montagne non sono cartoline, ma luoghi densi di umanità e storie personali. Non c’è nessuno sguardo esotico, nessuna fascinazione, e anzi, questa è stata una premessa che ho fatto alla troupe: “Non facciamo l’azienda turistica”. La montagna è talmente bella che il turismo ne è la conseguenza. È ovvio che il Trentino beneficerà di questo film, però non è stata assolutamente la premessa».
Ci ricorda come è nato il film?
«È nato da un momento epifanico. In realtà al tempo stavo ragionando e scrivendo di altro, non avrei mai pensato di fare un film sulle origini della mia famiglia. Poi c’è stata la perdita di mio padre, ed è uno di quegli eventi che cambiano tutto. Il momento epifanico è giunto con un sogno, arrivato con una corposità sensoriale che sembrava una visione, molto forte, non mi è più successa una cosa così. Quando mi sono svegliata ero felicemente turbata ed emozionata per aver ricevuto la visita di mio padre bambino che mi ha portata in quei luoghi: lui era di fatto un bimbo, ed era proprio lì, a Vermiglio, in un posto che conoscevo molto bene ma sul quale non ponevo più la mia attenzione da tempo. Ho iniziato a scrivere di questa immagine, di questo bimbo che giocava con i suoi fratelli e le sue sorelle e ho trovato molto interessante il fatto di andare a riscoprire dei luoghi in un tempo lontano e che fosse mio padre a guidarmi lì. Mi sentivo accompagnata e ho capito che potevo raccontarlo, perché era un mondo che conoscevo e allo stesso tempo c’era lo scarto del tempo che mi lasciava una certa libertà nella scrittura drammaturgica».
Infatti l’infanzia è una componente molto presente nel film, così vivace e vispa, irriverente e ironica.
«È un aspetto che fa sempre molta paura alle troupe, i bambini sono considerati da evitare perché sono imprevedibili, però è talmente bello, io li amo tanto perché portano uno sguardo irriverente e dolce in sé, credo siano una manna dal cielo, soprattutto quando stai raccontando la tragedia. In generale lo sguardo dei bambini sul mondo per me è uno degli elementi da preservare, perché da adulti ci dimentichiamo tante cose che loro ci ricordano».
A proposito di «raccontare la tragedia», la guerra è il personaggio del film che c’è ma non si vede mai, una presenza non detta che però determina i destini delle persone. Perché ha voluto non mostrarla, nemmeno «dirla», preferendo il silenzio alla parola anche dalla bocca dei due reduci?
«In parte la consapevolezza, per quanto mi riguarda, di quanto sia indicibile la guerra: io, come creatrice, sento che non bastano le parole e le immagini. Ho pensato che negli sguardi vuoti e nei silenzi dei soldati che tornano, indirettamente, si potesse raccontare di più. Inoltre, raccontare chi attende (la comunità di Vermiglio, ndr) mi sembrava un’angolazione altrettanto potente su cui poter riflettere un po’ di più».
E chi stava ad attendere, nelle guerre di allora, erano in buona parte le donne. In una società assolutisticamente patriarcale come era quella di ottant’anni fa, nel suo film emerge sia la condizione femminile di allora, sia una pluralità di identità femminili che sembrano ammiccare ai tempi che sarebbero venuti. Un femminile – per quanto dominato e controllato – in potenza, che sbircia oltre la predestinazione delle società rurali del tempo.
«Era un po’ questa l’intenzione. Situare il film in quegli anni mi ha dato la possibilità di lavorare in bilico, a cavallo tra il vecchio e il nuovo, che sono vasi comunicanti tuttora nel senso che ancora oggi facciamo i conti con il patriarcato, seppur in maniera diversa. Forse lì si poteva sentire ancora di più come queste donne fossero figlie del loro tempo e come allo stesso tempo fremesse già in loro un desiderio di autodeterminazione, anche in segreto, nascosto, sussurrato, ma era lì che bolliva in pentola. Di fatto la protagonista (Lucia, interpretata da Martina Scrinzi, ndr), non certo per un’idea teorica di femminismo contemporaneo, ma per necessità di vita e per rimanere in vita, fa un salto enorme rispetto a una donna dei suoi tempi».
In diversi momenti, forse i più significativi del film, emerge poi in rilievo il tema – anche questo molto contemporaneo – della sorellanza: sempre inconsapevole perché non ancora teorizzato, ma presente a prescindere.
«Esatto. Adesso noi donne stiamo finalmente capendo perché è importante la sorellanza e stiamo cercando di renderla programmatica. Lì invece troviamo quell’“in nuce” di cui si parlava sopra. Era importante per me far emergere quei gesti per cui una donna consegna nelle mani di un’altra donna le chiavi per affrontare i passi successivi nella vita. Mi piaceva il fatto che anche donne apparentemente “nemiche” si trovassero infine accomunate e sorelle».
Alla cerimonia di premiazione a Venezia ha fatto un bellissimo discorso sulla conciliazione tra vita privata e lavoro e sull’importanza del sostegno pubblico al cinema d’autore. Cosa serve e cosa manca al cinema italiano?
«Serve continuare a difendere il finanziamento pubblico, che viene costantemente attaccato e messo in discussione. Oltre ai film commerciali, il pubblico desidera altri generi di film. Sicuramente dobbiamo preservare il fatto che fare cinema significhi fare arte e che non può esistere solo il cinema che fa intrattenimento. Se vogliamo essere all’altezza dei nostri titoli bisogna continuare a mantenere un’idea alta di cultura».
A proposito di finanziamenti – senza i quali non avremmo visto questo lungometraggio recitato in dialetto e sottotitolato –, quanto è stato importante poter usare il dialetto per la riuscita del film?
«Il dialetto è stato fondamentale per una questione di verosimiglianza e di sensorialità del film. Chi lo ha visto dice: “Mi sembra di essere lì”. Attraverso il dialetto si compie un viaggio nello spazio e nel tempo, altrimenti saremmo rimasti seduti sulle nostre sedie contemporanee».
Infine, Delpero, come si sta preparando alla corsa per gli Oscar?
«Mi preparo cercando di entrare nella shortlist che includerà i 15 migliori film internazionali (che sarà resa nota il 17 dicembre, ndr), con tanto lavoro, facendo tanta campagna, e con le persone che accompagneranno il film verso l’obiettivo. Io ci metto tutta la mia buona volontà, poi il film dovrà fare il suo».