L'INTERVISTA

venerdì 18 Agosto, 2023

Mauro Corona: «Non sono né di destra né di sinistra, a Mediaset aiuterò Bianchina. Non temo più le vette, voglio morire lì»

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Lo scrittore, scultore e alpinista nato a Baselga di Piné è stato ospite a Canazei dove ha disegnato con le parole un ritratto triste del nostro tempo

«La natura va imitata per evitare molti danni e imparare il rispetto per gli altri. Del mondo di oggi mi spaventa quello che definisco il “nichilismo del terzo millennio”: non avere un progetto per chi viene dopo, ma nemmeno per noi stessi. Consumare senza porsi domande, non lasciare un posto pulito per le generazioni future è il male della società». È un ritratto triste del nostro tempo quello che Mauro Corona ha disegnato con le parole, qualche giorno in una piazza Marconi di Canazei affollata da quasi duemila persone che hanno ascoltato, applaudito e riso alle battute colte dello scrittore, ospite della rassegna «Canazei Campo Base».
Nel suo ultimo libro «Le cinque porte» c’è un trasferimento di conoscenza ai nipoti da parte di un nonno che ricorda il suo, da cui ha imparato a scolpire?
«Certamente nel libro c’è mio nonno che mi ha insegnato molto, perché io e i miei fratelli siamo stati abbandonati dai genitori. Ho rivisto mia mamma a 13 anni, dopo la tragedia del Vajont. Ma ci sono anch’io, che non sono un nonno classico che spinge carrozzelle. Amo i miei due nipotini che appaiono nel libro (anche se sono più piccoli dei protagonisti). Li porto, attraverso il racconto, in un ipotetico viaggio, immaginando le porte delle stagioni della natura che è una maestra».
Cosa dobbiamo imparare dalla natura?
«Abbiamo l’idea che la natura sia avulsa da noi, ma la natura non sa nemmeno di esistere se non siamo noi a osservarla e curarla. Quando danneggiamo montagne, boschi, mari danneggiamo noi stessi. Una volta faceva da deterrente allo spreco la religione, gli insegnamenti antichi, si misurava, si conservava. Oggi abbiamo capito che la vita è fugace. È l’era dell’usa e getta. Quand’ero bambino con mio nonno raccoglievamo le rane, come le lumache, i funghi e andavamo a caccia perché avevamo fame. Ma c’era un’etica che oggi è sottovalutata a vantaggio dell’estetica. Quando si usciva di casa, a marzo nelle giornate di pioggia per cercare le rane, sapevamo il numero massimo da raccogliere e guai – erano bastonate – a prenderne una in più: il nonno diceva “lasciamole agli altri”. Oggi siamo fragili: la gente se la gode, consuma suolo, acqua. Chi ha pochi giorni di ferie vuole arrivare dappertutto, anche in alta quota, con l’auto. Invece, dovremmo riappropriarci della lentezza, del cammino, dell’osservazione del territorio. Può sembrare una poesia decadente, ma non lo è: nei ritmi della natura c’è l’energia buona».
Nel libro il nonno dà anche consigli su come preparare uno zaino per andare in montagna.
«Sono informazioni frutto della mia esperienza. Anche a me è capitato che la luce frontale si spegnesse mentre salivo in quota al buio. Perciò consiglio due lampade frontali, un coltellino, un sacco grande della spazzatura per scaldarsi, in caso ci si perda, accendini e fiammiferi per accendere un fuoco, sempre che si sia capaci, senza incendiare un bosco. Poi rivolgersi alle guide alpine per scegliere un itinerario, consultare i bollettini meteo. In montagna bisogna muoversi con attenzione, basta poco per trovarsi in difficoltà».
Il libro è inframezzato dai disegni di suo figlio Matteo e le sue figlie hanno scritto libri, pensa di aver trasferito loro qualcuno dei suoi tanti talenti?
«So che la vita da un lato ti dà, dall’altro ti toglie. La mia vita è stata un’infanzia rubata, poi per diverso tempo restituzione. Da qualche anno ha ripreso a togliere. A settembre uscirà un libro che forse è il mio testamento: ho scritto cose che andavano dette, perché morire fraintesi è la peggior cosa che possa capitare a un essere umano. L’ho intitolato “Le altalene” perché nella vita è tutto un andare e tornare: il giorno e la notte, l’ordine e il disordine, la felicità e il dolore».
Nel 1972 ha vinto una medaglia di bronzo ai Campionati italiani di bob di Cervinia, cosa pensa del fatto che nessuna azienda abbia partecipato al bando per la costruzione della pista di bob per le Olimpiadi del 2026 a Milano-Cortina?
«All’epoca gareggiavo con il bob per andare in posti che, altrimenti, non mi sarei potuto permettere. Oggi, si vogliono investire 76 milioni di euro per una pista, mentre l’ospedale di Misurina per i bambini malati di asma è stato chiuso. Bisogna dare agli ospedali di montagna un po’ di milioni di questa pista, che non so come costruiranno: bisogna progettare pensando agli utilizzi post gare, non come a Torino. Non si possono più fare cattedrali nel deserto».
Lei ha aperto 300 vie sulle Dolomiti, ha fatto lavori durissimi, in televisione dice sempre quello che pensa: c’è qualcosa che le fa paura?
«Ho recitato il coraggio sin da piccolo. Ho arrampicato non per la conquista delle cime, ma per superare la paura del vuoto, così a 13 anni ho scalato il Duran con mio fratello. Ho paura della malattia soprattutto quella dei figli: ci sono passato dentro questa paura mista a dolore. Quando uno dei tuoi figli ti dice “mi tocca morire, papà”, quello è sfinimento di vivere. Poi le cose, se possibile, si risolvono. Non ho certo paura di cadere in montagna, anzi. Non subito. Ma mi piacerebbe morire come Diego Zanesco (guida alpina precipitata il 31 luglio dalla Tofana di Rozes) e tanti altri amici».
A settembre la rivedremo in televisione con Bianca Berlinguer?
«La Bianchina, come la chiamo io, è passata a Mediaset e, posso anche dire, finalmente. Non che ci fossero problemi, io ho chiesto scusa pubblicamente. In passato ho maltrattato Berlusconi, ma poi ho capito che è anche stato fatto a pezzi da una certa magistratura. Ora Berlinguer ha avuto la sicurezza di portare chi vuole nel programma perché Piersilvio Berlusconi ha dimostrato di voler aprire alle culture di sinistra, senza pregiudizi. Allora mi sono chiesto: “vado o non vado”? Perché una volta ero di sinistra: ma dov’è oggi la sinistra? Ora non sono né di destra né di sinistra. Così ho deciso: Sancio Panza non può abbandonare Don Chisciotte e dal 5 settembre mi ritroverete in tivù, per la vanità assoluta della mia faccia ma soprattutto per dare voce a chi non ce l’ha».