L'INTERVISTA

giovedì 4 Gennaio, 2024

Maxi rissa a Trento, l’attivista Mpaliza contro il sistema di accoglienza: «Poche attività. Occupiamo il tempo di queste persone»

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L’analisi del marciatore per la pace di origine congolese che è stato un richiedente asilo: «Una delle pecche è che questi ragazzi non fanno nulla. Si riprendano i tirocini e i corsi di lingua»

La maxi rissa dello scorso 29 dicembre avvenuta in pieno centro città è stato un evento che ha certamente sconvolto tutte e tutti. Ma non è, purtroppo, un caso isolato ed è la conseguenza di una serie di tasselli mancanti di un puzzle chiamato società. Assieme a John Mpaliza, attivista di origine congolese, marciatore per la pace, in Italia dal 1992, abbiamo cercato di esaminarlo in chiave sociale.
Mpaliza, che spiegazione si è dato della rissa avvenuta a Trento lo scorso 29 dicembre?
«Parto col dire che condanno ogni atto di violenza e quello che è successo è ingiustificabile. Però credo sia una conseguenza di problematiche che stanno a monte. Inoltre, è anche vero che la notizia è stata divulgata in maniera molto forte, quasi aggressiva in modo tale da (inevitabilmente) preoccupare anche tutti i cittadini. È un evento che deve portarci a riflettere, specialmente perché non è e non sarà un caso isolato. Se non si risolvono i problemi potrà succedere altre volte».
Quali sono le problematiche?
«Guardi, io stesso ho vissuto da richiedente asilo trent’anni fa. Ho abitato in un ghetto in provincia di Caserta e per ghetto non intendo una struttura statale ma un’abitazione improvvisata da una decina di persone provenienti dalla stessa origine geografica. Vivevo con ragazzi del Congo e dell’Angola, parlavamo tutti la stessa lingua, mangiavamo le stesse cose e comunque c’erano incomprensioni e discussioni soprattutto in inverno quando non andavamo nei campi a raccogliere la frutta e la verdura. Quando si lavorava, mi creda, tornavamo così stanchi che ognuno si preparava a turno la cena e poi andava a dormire per ripartire la mattina seguente».
Sta lanciando una frecciatina al sistema di accoglienza?
«Una delle pecche del nostro sistema di accoglienza è che questi ragazzi non fanno nulla dalla mattina alla sera. Come occupano il tempo? Qui bisogna tornare a ragionare sull’accoglienza diffusa, che c’era fino a 5 anni fa. Parliamo di tirocini, corsi di lingua che ora non ci sono più. E poi i giovani adolescenti che a 16 anni, dopo il decreto Cutro, vengono trattati come adulti e inseriti in strutture con gente molto più grande di loro».
Credo che a 16 anni un ragazzo sia anche più vulnerabile e maggiormente incline a seguire esempi sbagliati…
«Io vorrei proprio chiedere a persone trentine se farebbero vivere i propri figli adolescenti con un gruppo di adulti. Non lo trovo fattibile. Che poi, non penso che tutti amino lo spaccio ma ci sbattono addosso per forza di cose. Io, arrivato in Italia a 22 anni, ho conosciuto spacciatori ma ci sono stato lontano perché avevo un’alternativa che mi ha portato a scegliere il meglio. Loro che alternativa hanno?».
C’è anche la condizione in cui vivono le persone all’interno dei centri di accoglienza…
«Credo che non sia corretto mettere insieme più di 20 persone che stanno a guardarsi dalla mattina alla sera. Per di più senza considerare le rivalità legate alle diverse provenienze e legate anche alle generazioni diverse. Non puoi ammassare 250 persone all’interno della residenza Fersina mentre sono in attesa del giudizio delle Commissioni o dei documenti e poi metterci anche giovanissimi che, invece, avrebbero bisogno di maggiore tutela».
La residenza Fersina è sempre stata un po’ nell’occhio del ciclone quando si tratta di accoglienza…
«È sempre stata un problema perché, se non ci sono abbastanza operatori diventa sia un problema per gli ospiti che un pericolo per gli stessi dipendenti che non si sentono tutelati. Ci sono 2 o 3 operatori per gestire quasi 300 persone, è chiaro che fanno quello che possono ma è il minimo indispensabile. Una volta, quando c’erano più operatori, si portavano gli ospiti in gita, si organizzavano feste per cercare partecipazione e coinvolgimento».
Si ritorna sempre sul tema delle attività che mancano, quindi?
«Certo. Bisogna tornare all’accoglienza diffusa di 5 anni fa, riprendiamo i tirocini, facciamo andare i ragazzi a scuola, facciamo fare loro dello sport. Educhiamo queste persone a migliorare e migliorarsi. Se tu riempi la giornata di una persona dalla mattina alla sera, torna a casa talmente stanca che non penserà a fare altro. E sarà magari una persona contenta e orgogliosa di essersi sistemata e inserita in un percorso e in un sistema».
E sicuramente meno disposta ad avvicinarsi allo spaccio e alla criminalità?
«Lo spaccio esiste anche perché la gente non ha da mangiare, non ha mezzi e non vede futuro. Come si salvano queste persone? Creando opportunità e le assicuro che ci sono molte associazioni che non vedono l’ora di riprendere le attività che svolgevano prima della stretta leghista. E sono sicuro che se ritornassimo al sistema di una volta, sarebbero tantissimi i cittadini trentini che si impegnerebbero per sostenere, aiutare, organizzare corsi e attività di volontariato anche nelle strutture di accoglienza. È chiaro che, se un volontario oggi entra alla Fersina e vede centinaia di persone ammassate e due operatori in croce scappa dalla giungla».
Due dei ragazzi coinvolti nella rissa avevano precedenti penali e saranno rimpatriati. Lei è favorevole ai Cpr?
«Assolutamente no. Sono delle prigioni. Poi io non conosco questi ragazzi e i loro precedenti, mi limito a fare una valutazione esterna. Non capisco se la Provincia, così facendo, cerca una punizione collettiva… L’oppressione non è la soluzione, ci vuole coinvolgimento. Possono rimpatriare due persone oggi ma domani avremo lo stesso problema».