La storia
martedì 7 Maggio, 2024
di Davide Orsato
Nell’ospedale in cui si trova per quest’anno, il Necker di Parigi, tra più importanti centri pediatrici francesi «un medico su cinque è italiano». Segnali che la «diaspora sanitaria» sta diventando una norma. L’intera carriera di Alessia Callegari, cardiologa pediatrica, si è svolta fuori dai confini del Trentino, terra che le ha dato i natali. Da quando si è laureata, ha sempre lavorato per la sanità svizzera. Classe 1990, 34 anni di Trento, la sua scelta, la dottoressa Callegari l’ha fatta appena dopo la laurea a Padova. Era il momento di scegliere la specialità.
Cosa l’ha portata a Zurigo, al Kinderspital, l’ospedale pediatrico?
«Dovevo scegliere cosa fare e, semplicemente, in Italia non c’era la specialità. Avevo le idee chiare: volevo diventare cardiologa pediatrica e mancava un percorso dedicato. In Svizzera invece c’era. Avevo già fatto l’Erasmus a Monaco, dove ho avuto l’occasione di impratichirmi con il tedesco».
Nient’altro?
«C’è stato anche un altro motivo, che ha sempre a che vedere con l’organizzazione. In Italia è tutto centralizzato, i concorsi sono nazionali e… si aspetta. Io avrei dovuto aspettare un anno. In Svizzera, viceversa, ogni posto è assicurato da un ospedale dopo un colloquio diretto: questo mi ha permesso di lavorare fin da subito. Ero molto motivata».
Sappiamo che con gli stipendi non c’è partita. Ma gli specializzandi sono retribuiti meglio in Svizzera?
«Come in altri Paesi europei si riesce ad essere economicamente indipendenti fin da subito, in Italia non sempre è così».
Ha mai valutato la possibilità di ritornare in Italia, magari in Trentino?
«Per me è una questione che non si pone: in Italia non ho mai lavorato. Anche per questo motivo non me la sento di fare paragoni. Ma posso dire che per me la flessibilità che qui viene garantita è molto importante».
Cosa intende?
«C’è la possibilità di dire “ok, comincio qui” e poi fare qualcosa di diverso, di costruirsi il proprio curriculum. In questo momento mi trovo all’ospedale Necker di Parigi per un periodo di formazione. Ho chiesto alla mia struttura di ridurre le ore, mentre questa attività viene pagata da una borsa di studio privata».
In tanti, tra i medici che scelgono di andarsene, lamentano difficoltà di conciliare il lavoro con la vita privata. Qual è la sua esperienza, da questo punto di vista?
«In Svizzera si lavora tanto: i medici fanno cinquanta ore a settimana. Ma si può chiedere di ridurre l’orario, con riduzione della retribuzione. Questo dà l’opportunità di coltivare altre interessi o di seguire un po’ di più la propria famiglia. E poi, sulle ferie e i turni non si scherza».
Non le viene chiesto, per esempio, di coprire un collega all’ultimo momento…
«Sarebbe illegale. Su questo sono molto rigidi».
Ha cominciato questa telefonata dicendo che all’ospedale parigino dove si trova tanti medici sono italiani. Quanto ci sta rimettendo il nostro Paese?
«Il fenomeno è in grande crescita e per l’Italia si tratta di una perdita enorme, anche perché se ne va capitale umano difficilmente rimpiazzabile. Quando me ne sono andata via io erano più gli specializzandi a fare questo tipo di scelta, che poteva avere diverse motivazioni. Ora se ne stanno andando gli specialisti, medici operativi già da anni».