L'intervista
mercoledì 20 Marzo, 2024
di Francesco Barana
«La scarpa adesso è qui a casa, devo ancora decidere cosa farne, ma certamente la mostrerò alla comunità. Sarà un modo per ricordare ancora Gunther». Così dice Reinhold Messner, 79 anni, il primo uomo a scalare tutti i 14 ottomila del mondo. Quella scarpa, la seconda appartenuta al fratello minore nella spedizione sul Nanga Parbat del 1970 – quando Gunther morì travolto da una valanga e Reinhold scalò il suo primo ottomila – ritrovata in Pakistan due anni fa (la prima fu rinvenuta assieme ai resti di Gunther nel 2005), è stata consegnata ieri a Messner, che lo ha comunicato in prima persona sui social con un post significativo: «Vengono finalmente smentite le teorie del complotto su Gunther e sulla tragedia del Nanga Parbat. Gunther, grazie, ti penso».
Messner ovviamente si riferisce alle accuse che il capo-spedizione di allora, il tedesco Karl Maria Herrligkoffer, gli mosse e cioè di aver abbandonato tra il 27 e il 29 giugno di quell’anno il fratello morente in cima alla parete Rupal, sacrificandolo per le sue ambizioni ed essere l’unico a raggiungere la vetta. Gli altri componenti della spedizione, Max von Kienlin e Hans Saler, pubblicarono in seguito un libro in cui sostenevano che Reinhold avesse fatto scendere il fratello dalla parete Rupal, riservandosi per sé la discesa dal versante Diamir.
«Infamie durate 54 anni»
«Infamie perdurate 54 anni e cavalcate anche da alcuni giornali, in particolare tedeschi come Der Spiegel – dice Messner – Ma non serviva la seconda scarpa per chiarire o avere la certezza di quanto successo in quei giorni». Quella, continua l’alpinista di Bressanone, «è stata fatta nel 2005 quando è stata rinvenuta la prima, assieme ai resti di mio fratello nel punto che avevo indicato (sul versante Diamir, dove i due fratelli stavano scendendo dopo aver raggiunto la vetta, ndr); ma i fatti erano chiari fin dall’inizio, chiunque fosse in buona fede e conoscesse le basi dell’alpinismo lo avrebbe potuto constatare subito, ma il capo-spedizione non era nemmeno un alpinista ma un organizzatore».
Il giorno della valanga
Messner ripercorre quei fatali momenti, aveva 26 anni, Gunther 24: «Il tempo stava peggiorando e la spedizione era destinata a fallire, così proposi al capo spedizione di tentare da solo un ultimo assalto alla montagna, lungo la parete Rupal. Partii il 27 giugno, mio fratello e un altro avrebbero dovuto seguirmi un paio d’ore dopo solo per un pezzo per mettere delle corde fisse sul tragitto sul quale poi avrei dovuto scendere. Faceva freddo, era già semi-buio e Gunther non vedendomi tornare decise di raggiungermi da solo. Ci congiungemmo a ottomila metri, avevamo una cresta di neve abbastanza abbordabile ed era ovvio che entrambi saremmo riusciti ad arrivare in cima». Infatti «è nella discesa che ho capito che Gunther aveva i primi segni del mal di montagna. Era esausto, ma siamo stati costretti a scendere sul versante Diamir, dove è stato travolto e dove poi sarebbe stato ritrovato 25 anni dopo».
«Onta difficile da sopportare»
Messner sospira: non c’è sollievo per una verità emersa nella sua inconfutabilità, solo dolore nel ripensare a quei giorni e a quel marchio d’infamia: «Chi da 54 anni mi calunnia ancora non mi ha chiesto scusa. Persi mio fratello sul Nanga Parbat nel 1970, ma è come se lo avessi riperso tutte le volte che sentivo quelle infamie. È stato difficile sopportare quell’onta, un’onta che ha colpito anche il resto della mia famiglia. Si immagini mia madre, che nel ‘70 si ritrovò senza un figlio e con l’altro accusato di aver abbandonato Gunther. S’immagini me, Gunther era anche qualcosa di più di un fratello, perché quando tu condividi certe esperienze estreme crei un rapporto simbiotico che va al di là anche del legame di sangue».
«Attaccato per invidia»
Messner peraltro per diversi anni non ha neppure potuto replicare pubblicamente al j’accuse di Herrligkoffer: «Prima di partire avevamo sottoscritto una clausola contrattuale nella quale ci impegnavamo a non parlare della spedizione per un certo periodo». Messner qualche spiegazione di quelle calunnie se l’è data: «La mia fama stava crescendo ed era un affare attaccarmi, più diventavo famoso e più era utile farlo. C’era invidia, c’è chi nei miei confronti la cova ancora per il mio museo, o per la mia attività di divulgatore. Ce l’hanno con me perché non sposo l’alpinismo eroico, ma sono per quello tradizionale che invita l’uomo ad accettare e sottomettersi ai pericoli e alla grandezza della montagna». Per Messner infatti «l’alpinismo è prima di tutto un fatto culturale». «Promuoverò il mio modo di pensare fino alla fine, e quando non ci sarò più sarà mia moglie Diana (più giovane di lui di 36 anni, ndr) a portare la mia testimonianza. Abbiamo creato una startup apposta».