L'intervista
venerdì 24 Novembre, 2023
di Elisa Salvi
«A diversi anni dalla loro nascita, i TEDx sono ancora molto seguiti perché danno spazio a “idee che meritano di essere diffuse”. Queste conferenze, dal format particolare, si fondano su tre aspetti: semplicità di comunicazione di un’idea anche dal contenuto complesso, tempo limitato degli interventi dei relatori, tra i 15 e i 18 minuti, e viralità. In un’epoca in cui si è sopraffatti da notizie terribili, il pubblico si porta a casa la speranza di visioni e comportamenti che possono cambiare il mondo». A sostenerlo Michela Catenacci, milanese che da anni vive a Trento, esperta di comunicazione efficace e public speaking, formatrice per aziende e scuole, ma soprattutto coach degli speaker di numerosi TEDx (declinazione del primo TED: acronimo di “Technology, Entertainment and Design” primo evento organizzato nel 1984, diventato nel 1990 conferenza annuale, con diverse varianti in Usa, Europa e Asia), tra cui “10 anni di idee” di Trento, in programma il 25 novembre al teatro Santa Chiara, nonché del primo TEDx della Val di Fassa, dal titolo “V.O.C.I” che si tiene il 14 dicembre al teatro Navalge di Moena.
Da quando ti occupi di TEDx?
«Ho iniziato nel 2013 collaborando con TEDx Como e Milano. Poi, per un paio d’anni, ho curato il TEDx Ca’ FoscariU per l’università di Venezia e, quando mi sono trasferita a Trento, sono a entrata a far parte del team trentino».
Il prossimo TEDx Trento conta nove relatori, mentre quello di Fassa quattro: è faticoso prepararli tutti?
«TEDx Trento si fonda su un core team, tanti volontari e su più coach degli speaker, il che è fondamentale perché si tratta di un lavoro impegnativo per raggiungere l’efficacia di questo show che necessita di grande preparazione. È necessaria, infatti, un’attenzione individuale a ogni speaker che è una persona con esperienze e competente diverse e che va, innanzitutto, conosciuta e ascoltata. Personalmente, propongo al relatore un percorso di “centratura” dell’idea che vuole passare nel suo discorso, per arrivare alla mente e al cuore del pubblico».
Per il relatore si tratta di esprimere un concetto in cui crede?
«Qualcosa di più: è una sorta di dono al pubblico, frutto del suo lavoro, di una sua riflessione rispetto a quanto ha vissuto e di cui è così esperto da volerla condividere. Si crea una struttura del discorso, con gli esempi giusti, i dati, il finale che è importante quanto l’inizio ad effetto. È di grande ispirazione per chi ascolta e non è un processo banale arrivare al cuore del discorso del relatore. E bisogna riuscirci affinché chi partecipa veda una prospettiva diversa di una certa tematica, arricchisca il suo pensiero, aggiunga un nuovo pezzo del puzzle. Poi, è importante preparare bene l’esposizione, capendo come lo speaker, nel rispetto della sua personalità, si debba porre di fronte al pubblico presente in sala o che usufruirà del contenuto in video».
La sua passione per la comunicazione efficace, invece, com’è nata?
«Ho un dottorato in economia dell’ambiente e ho seguito, per alcuni anni, i processi decisionali riguardo le politiche per i cambiamenti climatici. Durante convegni e incontri internazionali ho notato spesso come ricercatori, scienziati, economisti avessero grossi limiti nel comunicare informazioni e dati significativi, riscontrando una differenza tra l’approccio italiano e quello anglosassone maggiormente educato al confronto con il pubblico. Da lì mi sono avvicinata ai TED, poi ho fatto esperienza come direttrice della comunicazione di un’importante associazione e ho approfondito il public speaking fino a diventare formatrice. Oggi lavoro con aziende, manager, centri di ricerca, università, scuole e collaboro con altri formatori sul tema delle “soft skills”».
L’ambito che le dà più soddisfazione?
«Le scuole perché ho riscontro immediato dell’accrescimento di autostima dei ragazzi. Parlare in pubblico significa essere capaci di costruire un discorso logico con contenuti interessanti e di gestire le emozioni. Lavoro alle medie e alle superiori, ma credo che si dovrebbe cominciare sin dalle elementari sottoforma di gioco».
Perché oggi si fa tanta attenzione alle capacità comunicative delle persone?
«Fortunatamente, negli ultimi anni, è cresciuta la consapevolezza di quanto conti l’abilità comunicativa, come altre competenze trasversali che hanno a che fare con la relazione con le persone, e di quanto influisca sulla performance. Il tuo rendimento, il modo in cui viene compreso quello che proponi, quanto tu vieni apprezzato sono aspetti che pesano, in ambito professionale ma non solo. Ecco perché non ci si concentra solo, e non lo si è mai fatto, sui contenuti, ma anche su come questi vengono veicolati, come ci si pone verso chi ci ascolta, che tono della voce si usa, l’espressione del volto, come si muove il corpo. In tutto questo rientra il cosiddetto “blocco a parlare in pubblico”: molti credono sia un limite personale, mentre è piuttosto diffuso. La buona notizia è che si può superare».
Ethos, pathos e logos di Aristotele restano i cardini anche della comunicazione contemporanea?
«Da più di duemila anni, questi sono i riferimenti della comunicazione argomentativa efficace, una dialettica che ha il fine di sostenere un’idea. In generale, anche il buon senso, suggerisce che un pubblico ci ascolta con più attenzione, e magari decide di fare propria l’idea che gli proponiamo, nel momento in cui non solo gli portiamo il logos, quindi il contenuto mostrandoci esperti della materia che trattiamo, ma anche le emozioni che lo facciano diventare parte di quello che stiamo raccontando».
L'INTERVISTA
di Anna Maria Eccli
Violoncellista, sposata con un principe africano, gira il mondo per lavoro. Nella città della Quercia ha deciso di comperare un rifugio dalla vita frenetica parigina. Proprio accanto alla residenza per cui i suoi avi si indebitarono