La storia

sabato 23 Marzo, 2024

Mirco, il malessere psicologico e la salvezza nel gruppo: «Quando stai male sei sempre solo, gli altri mi hanno salvato. Ora voglio restituire»

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Mirco, da utente a facilitatore del gruppo Ama: «È importante dare voce al malessere»

Se Mirco V. si guarda indietro, si stupisce anche lui della strada che ha fatto. «La persona che sono oggi è completamente diversa da quella che ha bussato alla porta dell’Associazione auto mutuo aiuto di Trento sette anni fa”. Era il 2017 quando Mirco, che allora aveva 58 anni, vivendo un profondo malessere si è rivolto al gruppo di ascolto dell’associazione. Da allora lui sta meglio e nel tempo è passato da utente, a volontario fino a diventare facilitatore del gruppo che lo ha aiutato in un momento buio della sua vita. «Voglio essere un supporto per gli altri – racconta – Cerco di restituire ai nuovi arrivati quello che il gruppo mi ha dato. Credo che la mia storia si condensi in questo».
Mirco come stava quando nel 2017 si è rivolto ad Ama?
«Era un periodo molto difficile. Mi trovavo senza energie, senza voglia di fare nulla. Non riuscivo a conciliare l’immagine che avevo di me in quel momento con la persona che ero stato prima. Mi sentivo senza armi a combattere questa battaglia da solo. Avevo la sensazione di non riuscire a contrastare questo malessere, sentivo che si impossessava di me e mi toglieva la voglia di reagire. Ho provato ad aggrapparmi a qualcosa o a qualcuno, ma non ero mai sereno. Lo facevo per evitare la solitudine del malessere. Ecco mi sentivo solo anche quando ero in mezzo a cento persone. Non riuscivo a capire me stesso né a comunicare agli altri come stavo».
E quindi si è rivolto al gruppo di Ama?
«Sì, sono entrato in gruppo e non ne sono più uscito. Parlando ed esprimendo i miei problemi è cambiato tanto. Quando sono arrivato ero completamente contrato sulla mia esperienza e sul mio disagio. Questo rende difficile i rapporti con gli altri. Invece parlando in gruppo non solo ascolti gli altri, ma ascolti davvero anche te stesso. È molto diverso ascoltarsi dal rimuginare con sé stessi. A volte è difficile far uscire il rospo, ma in gruppo poco a poco ci si arriva. Ecco di sicuro non è un percorso veloce. Tutti vogliono la risposa immediata, quella forse esiste a livello farmacologico, ma per il benessere e l’equilibrio serve tempo.
E ora come sta?
«Dico che sono stato fortunato. La persona nuova uscita da questo percorso è molto lontana dalla vita che avevo prima. Ora ho un’empatia verso l’altro che prima non avevo. L’esperienza nel gruppo mi ha aiutato a prendere in mano anche altre cose della mia vita, recuperare rapporti che credevo ormai perduti. In questo è stato importante il percorso in cui ho riconosciuto il mio malessere».
Era depressione?
«È una domanda complicata. Io non ho mai accettato di dare una definizione al mio malessere, ma è stata una scelta personale. Stavo male, ma avevo paura di avvicinarmi a questa parola, di darmi un’etichetta. La mia lotta è stata quella di combattere un malessere, un disagio a cui non volevo dare un nome».
E ora fa lo stesso per altri?
«Si ho fatto i corsi attraverso cui sono diventato prima volontario e poi facilitatore del gruppo in cui ho iniziato il mio percorso. Volevo restituire il bene che mi aveva dato. Poi resto a tutti gli effetti parte del gruppo, il facilitatore è solo una persona che si preoccupa di accogliere chi arriva, facilitare la conversazione e far sentire tutti a proprio agio».
Il gruppo come funziona?
«Siamo in dodici, ma di quelli che c’erano la mia prima volta siamo rimasti in tre. Il gruppo non ha una procedura standard. Si inizia a parlare e spesso da un’esperienza singola nasce un tema che si sviluppa automaticamente. Nel senso che risuona con tutti e tutti intervengono. Non ci sono consigli e tantomeno giudizi, ma ascolto ed empatia».
Che messaggio manda a chi si trova in una situazione simile alla sua di sette anni fa?
«Di parlare con qualcuno. So che quando si sta male è difficile relazionarsi con chi fa parte della nostra quotidianità. Anche perché sulla salute mentale c’è ancora uno stigma. Per questo consiglio un contesto accogliente come il nostro. Qui si trova un calore che altrove non c’è. Qui non c’è compassione, ma ascolto e condivisione dei problemi. Poi oltre al gruppo è importante anche la dimensione del fare. Per questo come Ama ci prendiamo cura di un orto comune»