Giustizia
sabato 1 Aprile, 2023
di Davide Orsato
Ha aspettato di averla «a portata di tiro» da sola, senza la compagna con cui, solitamente, si allenava e le ha messo le mani addosso, in due diverse occasioni. Molestie sessuali inequivocabili, violandola nei punti più privati e fermandosi solo quando lei ha lanciato un grido nelle docce della palestra. Per lui, un allenatore, uno di quei ruoli delicatissimi, specie quando si ha a che fare con persone giovanissime, è arrivata una condanna esemplare: nove anni di carcere, due in più rispetto a quanto richiesti dal pubblico ministero. L’accusa è di violenza sessuale, con l’aggravante di reato continuato. La sentenza è arrivata in tribunale giovedì, ma i fatti risalgono al luglio del 2019.
La vittima è una ragazza che all’epoca aveva compiuto diciotto anni da pochi giorni. Una giovane appassionata di uno sport minore che conta, in Trentino, poche squadre e pochi tesserati. Un’atleta coscienziosa e entusiasta, al punto da macinare, quasi ogni giorno, chilometri e chilometri per arrivare al luogo dell’allenamento, una località poco distante da Trento: per lei, insomma, si trattava di qualcosa di più di un semplice «hobby». E tutto sembrava andare per il meglio, con una grande chimica con le compagne di team: finché, per qualche assenza di pochi giorni, non si è trovata a tu per tu con il «mister» che, in queste condizioni, ha rivelato un aspetto di lui che lei non poteva – e non avrebbe mai voluto – conoscere.
Il primo approccio è arrivato a tradimento: le mani addosso fingendo qualche suggerimento e una battuta, fuori luogo, sull’intimo da indossare durante l’allenamento. Ma molto peggio è stato il «passaggio» che l’uomo, 53 anni all’epoca dei fatti, le ha dato per accompagnarla alla stazione ferroviaria: una molestia in piena regola. Quel giorno, almeno, l’uomo si era limitato alle mani. Al successivo allenamento è andato oltre. Un blitz sotto la doccia: lui, uno che poteva essere suo padre, la sorprende nudo: si ferma solo dopo delle urla.
La ragazza si confida con i genitori: in un primo momento tende, come spesso avviene in queste circostanze, a minimizzare, preoccupata anche per quello che una denuncia del genere può comportare per un padre di famiglie (con figlie, peraltro, sue coetanee). Ma la fiducia è saltata completamente e, dopo il secondo episodio, i genitori di lei si rifiutano di mandarla, comprensibilmente, agli allenamenti. Ma resta la preoccupazione di quello che potrebbero subire altre atlete: la famiglia della vittima cerca una mediazione, un confronto. Riceve, in cambio, solo dello scherno. Scatta quindi la denuncia ai carabinieri, si va a processo. Non è mai facile per una giovane ragazza, sostenere quelle accuse, sentirle ripetere davanti ai giudici. Magari sentendosi dire, in tutta risposta, di essersi «inventata tutto», che la vera vittima è il «padre di famiglia», al centro di una gigantesca diffamazione.
Ma i giudici (chiamato a pronunciarsi il collegio composto da Marco Tamburrino, Greta Mancini e Marta Schiavo) hanno ritenuto le prove portate dalla ragazza, assistita dall’avvocato Paola Lucin, schiaccianti. Da qui la sentenza «pesante», peggiorativa rispetto alle richieste del pm Maria Colpani, che ha tenuto conto sia del ruolo educativo tipico della figura dell’allenatore, sia dell’aggravante di reato continuato (in quanto commesso per due volte di seguito). Per il cinquantenne, a cui resta l’opzione del ricorso, c’è anche l’interdizione dai pubblici uffici: in attesa dalla sentenza era stato colpito anche dal divieto di avvicinamento nel comune di residenza della ragazza. Dovrà, inoltre, versare cinquemila euro di provvisionale: una sanzione contenuta rispetto alla pena detentiva, in quanto la parte offesa ha preferito non chiedere di più.
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