Terra Madre
martedì 16 Luglio, 2024
di Daniele Benfanti
Il significato letterale della parola sacro ha a che fare anche con il concetto di separato. Enrico Camanni, torinese, giornalista (ha fondato e diretto il mensile Alp e la rivista internazionale L’Alpe), geografo, scrittore, alpinista, ha da poco dato alle stampe un libro intitolato «La montagna sacra». Camanni lo sta presentando in giro per l’Italia e il 24 agosto sarà anche in Trentino, a Villa Welsperg, la Casa del Parco Paneveggio Pale di San Martino.
Camanni, il libro è scorrevole come un romanzo e documentato come un’indagine ambientale. Ma lei stesso non ha esitato a definirlo una dolce provocazione, perché?
«Dobbiamo chiederci perché abbiamo perso il senso del limite. Scaliamo le montagne, ci sciamo sopra, senza limiti. In culture più lontane dalla nostra, Ande, Himalaya, esistono ancora montagne sacre, considerate inaccessibili. Chi sbaglia, mi sono chiesto? La provocazione nasce dal dibattito che c’è da alcuni anni nel Parco nazionale del Gran Paradiso, che già di suo ha questo nome evocativo, per individuare una cima o una cresta da rendere in qualche modo sacra, cioè separata, non scalabile, per recuperare il senso del rispetto per la natura. La proposta ha creato aspre polemiche in Piemonte e Valle d’Aosta».
Siamo arrivati al limite?
«Direi di sì, a cominciare dai cambiamenti climatici, dallo sfruttamento delle risorse finite. Per la scienza siamo al limite, per la politica purtroppo no. E non lo saremo mai. Così non si agisce».
L’ambientalismo ha tanti meriti ma anche qualche pecca?
«Anche con questo libro cerco di far emergere una necessità: l’ambientalismo è diventato purtroppo uno spartiacque ideologico. Non funziona il modello “ambientalisti contro tutti”. Perché non dobbiamo difendere solo l’ambiente, ma noi stessi. Negli incontri che faccio in tutta Italia trovo un pubblico attento, emerge grande interesse per modelli alternativi di sviluppo, di rispetto delle fragilità della natura. Nascono spesso punti di vista meno convenzionali, che vanno valorizzati».
Si fa ancora troppa, fatica, però, a uscire dagli schemi classici di turismo, economia, approccio alla montagna. Perché dall’analisi non si passa ancora all’azione?
«Evidentemente perché gli interessi economici sono troppo forti. Sono gli interessi economici a trascinare le scelte. C’è una mancanza di fantasia: si continua sui binari del passato. Sul fronte dello sci in montagna, continuiamo a pensare a impianti di risalita impattanti, come mezzo secolo fa».
Nel libro, a tal proposito, lei cita anche due casi trentini. Quello del lago Serodoli, vicino a Campiglio, e quello di Passo Tonale, a cavallo fra Trentino e Lombardia.
In entrambi i casi l’approccio è quello degli anni sessanta, settanta o al massimo ottanta. Impianti e sfruttamento delle risorse, non si tiene conto dei cambiamenti che ci sono stati. A Serodoli si forzano le risorse idriche, sul Tonale si punta a un ulteriore allargamento per lo sci in ambienti delicati e anche teatro della Grande guerra bianca.
Lei, con arguzia, nota però che negli anni del boom economico quell’approccio poteva almeno avere una giustificazione…
«Sì, allora era vero che creare una stazione sciistica poteva dare lavoro ai montanari, mantenerli in montagna a vivere. Ma oggi non è così. Lo sci è talmente costoso che non è più per le nostre famiglie. Si vuole solo portare sciatori da territori sempre più lontani, con ricadute economiche e sociali minime su quei territori. E quegli investimenti vengono fatti con soldi pubblici: questo mi rende perplesso».
Rispetto alle Olimpiadi, che idea si è fatto delle infrastrutture per quelle italiane invernali del febbraio 2026, che coinvolgono anche il Trentino?
«Non conosco ovviamente tutti i dettagli dei progetti. In Piemonte abbiamo la pista del bob del 2006 con le erbacce e le ortiche, abbandonata. A Cortina sappiamo dei costi e dei problemi emersi. Non riusciamo a imparare niente dagli errori. Le Olimpiadi sono diventate un problema di gigantismo. Per il 2026 si è scelto di fare un pezzo qui, un pezzo lì, ma sempre in ambienti delicati. Almeno Pechino 2022 era in una zona periferica urbana…».
È una questione culturale?
«Certo. In Italia, poi, la natura è di tutti e quindi di nessuno. In Francia, ad esempio, il termine patrimonio non indica solo un bene individuale, ma anche quelli collettivi e naturali. Come ci sono edifici religiosi, monumenti, così dovrebbero esserci luoghi di montagna simbolici preservati, lasciati inaccessibili. L’essere umano è una specie invasiva. Recuperiamo il senso della montagna e della natura non come luogo di conquista».
Il paradosso è che nel momento in cui abbiamo perso il senso del sacro dalle montagne, le stiamo riempiendo di simboli religiosi…
«Vero. Ne parlava di recente con il vescovo di Pinerolo, monsignor Olivero. Si è passata la misura: croci e altari su tutte le cime. Ma per appenderci la maglietta, per scattarsi un selfie. Si è perso ogni significato originario».
La provocazione potrebbe diventare realtà, però. Possibile immaginare che ogni provincia, ogni regione, trovi una montagna o una cima da rendere inviolabile, sacra, non frequentabile?
«Ci spero. Credo sia un’idea nonviolenta».
Il Club alpino italiano (Cai) potrebbe farsi interprete di questa iniziativa?
«Se lo facesse, ne sarei contento. Ma finora è rimasto piuttosto tiepido».
Sempre nel libro, lei collega quelle che definisce «le quattro ingiustizie» al tema ambientale. Ci spiega?
«Le quattro ingiustizie in corso sono quella sociale, climatica, generazionale, ambientale. Quella ambientale riguarda le specie viventi: quella generazionale il fatto che a pagare le spese della crisi climatica saranno le nuove generazioni: avranno un mondo meno vivibile, più costoso, che non guarda al futuro. L’ingiustizia sociale consiste nel fatto che si investe a favore delle élite. La crisi climatica, quindi, colpirà sempre di più i poveri. Mi piace usare il concetto di ingiustizia: l’espressione “difesa ambientale” è troppo teorico e filosofico. La giustizia ambientale è più comprensibile».