Il lutto
giovedì 2 Marzo, 2023
di Sara Alouani
Martedì sera Massimo Beretta, dopo una lunga giornata di lavoro, stava andando a prendere Noemi, la secondogenita, a danza. Come farebbe un qualsiasi genitore, anzi, come ha sempre fatto sua moglie e madre delle sue due figlie, Snjezana Manić, se quel giorno non avesse dovuto trattenersi al lavoro fino a tardi.
«Ho aperto un pub da poco più di un mese e la sera è il momento in cui si lavora di più» racconta. Nonostante ciò, però, Snjezana avrebbe chiuso il «Noer» un po’ prima per andare a recuperare la figlia, ma il marito quella sera aveva insistito. «È tornato a casa solo per scendere dal furgone, che usa per la sua attività, e prendere l’auto» ricorda Snjezana che poi prosegue: «Ha preso la vecchia Seicento che usa solo per sbrigare commissioni saltuarie, l’utilitaria, sicuramente più resistente, era rimasta a me».
Alle 20.45 la figlia aveva inviato al padre un messaggino su Whatsapp per controllare dove fosse, messaggio che è stato visualizzato alle 21.01. Poi più nulla. A recuperare la ragazzina è stata poi la madre di una compagna di corso.
La moglie, originaria della Croazia ma residente a Trento da oltre 30 anni, è con le figlie di 13 e 15 anni nella cucina di casa, in strada Fonda a Vigo Meano, ricorda la storia con Massimo Beretta, morto martedì sera a 58 anni in via Bolzano. Si commuove: «Ci siamo conosciuti l’11 gennaio 1994 alla discoteca Waikiki di Gardolo. Facevo la barista e lui veniva sempre da me a prendere da bere, pagava in anticipo e poi scappava. Mentre molti mi corteggiavano, lui non mi degnava di uno sguardo. Alla fine, ho preso coraggio e ho deciso di offrirgli un drink. Da lì è cominciata la nostra storia. Massimo era un uomo bellissimo all’epoca», spiega Snjezana mentre viene corretta da Noemi («Papà tuttora è bellissimo»), e in quella cucina per un attimo è comparsa una risata sui volti di tutte e tre, compresa Erika, la figlia primogenita che fino a quel momento era rimasta in silenzio.
Lo chiamavano mani d’oro. Originario di Riva del Garda ma residente da oltre dieci anni a Vigo Meano, era richiestissimo in tutta Trento come professionista artigiano. Dal 1995 aveva aperto un’attività in proprio di serramenti blindati che gestiva assieme alla moglie che era anche la sua commercialista. Negli anni aveva «montato porte a quasi tutta la città», afferma la moglie con una orgoglio. Cosa che ci viene confermata anche da un amico, Romano Saltori, al quale lo sfortunato artigiano aveva ristrutturato tutti gli ingressi. Un precisino e gran lavoratore: «In 30 anni – spiega Snjezana in veste da commercialista – non ho mai dovuto redigere una nota di accredito. Nel suo lavoro era impeccabile».
Un uomo buono e amichevole -«era uno che faceva gruppo» – e la sera si ritrovava al pub della piazza di Vigo Meano «Moby Dick» per giocare a briscola in compagnia di Romano ed altri amici, quasi come fosse un rituale.
Amante della natura e degli animali, in particolare affezionatissimo al cane Arim, che è miracolosamente sopravvissuto allo schianto e con il quale andava a fare lunghe passeggiate nei boschi.
«Lo chiamiamo anche bianconero» spiega Giuseppe Bonn, un conoscente di Beretta, riferendosi al cagnolone che, a causa del suo manto maculato, ricorda i colori della Juventus, di cui Massimo era un grande fan.
Amava cacciare, ne parlava spesso anche con gli amici, ma non sparava «a lui piaceva guardare gli animali e vivere la bellezza della flora e della fauna trentine» precisa Snjezana.
«Come papà era un matto», dicono le figlie Erika e Noemi «a Gardaland saliva su tutte le giostre con noi senza paura, a 57 anni» mentre la madre, più diffidente invece, rimaneva a guardare i tre dal basso. Noemi regge in mano una foto recuperata al volo da un archivio storico, è uno di quegli scatti che si possono acquistare alla reception delle attrazioni dopo aver concluso il giro. Il papà siede sull’estremità posteriore della barchetta del «Colorado Boat», davanti, le due figlie che gridano alla discesa mentre lui serra gli occhi in una smorfia divertita, nel tentativo di ripararsi dalle gocce d’acqua.
Il «mani d’oro» era una persona che amava divertirsi e far divertire e qualche volta ancora si concedeva qualche serata in discoteca con la partner.
E pensare che lo stesso Beretta aveva perso il papà molto precocemente, all’età di 12 anni e il suo timore era proprio quello di lasciare le proprie figlie come il nonno aveva fatto con lui a soli 49 anni. «Era un po’ come se avesse costantemente un brutto presentimento, era diventata un’ossessione – confida Snjezana – quando ho visto la polizia fuori dalla porta ho capito tutto».
Snjezana nel suo corpo esile si mostra una roccia per tutto il tempo. «Quando l’emozione prende il sopravvento – spiega – non riesci a concentrarti su cose importanti. Io sono l’unica ancora a cui Noemi ed Erika si possono aggrappare e devo farmi forza, soprattutto per loro».
L'inchiesta
di Tommaso Di Giannantonio
L'incidente a San Martino di Castrozza, il padovano di 7 anni è ancora ricoverato all’ospedale Santa Chiara di Trento. Il piccolo era sul mezzo in uso alla Polizia insieme all’amico del papà