L'intervista
martedì 30 Maggio, 2023
di Federico Oselini
Un viaggio musicale acustico da Fabrizio De Andrè agli Eagles, da Francesco De Gregori a Simon and Garfunkel e tanti altri fari della canzone d’autore italiana e internazionale. È stato Neri Marcoré, tra i più apprezzati ed eclettici artisti del panorama italiano, a inaugurare domenica alle 20.30 (ingresso libero fino ad esaurimento posti) la stagione estiva della rassegna Fuori!, organizzata dal Teatro Stabile all’anfiteatro del parco delle Semirurali di Bolzano. L’artista marchigiano proporrà al pubblico bolzanino il suo live Duo di tutto. Canzoni belle e buone, che lo vedrà sul palcoscenico accompagnato dal polistrumentista Domenico Maiorenzi alla chitarra, al bouzuki e al pianoforte.
Neri Marcoré, qual è la cifra artistica del live che la vedrà protagonista?
«Proporremo una serie di canzoni che si innestano su un percorso che prende le mosse dalla mia esperienza personale come ascoltatore, inteso come colui che ha imbracciato una chitarra per cantare dei pezzi che amava. Si partirà quindi da un piano personale per toccare temi più universali e attuali, come ad esempio il tema delle migrazioni. Il filo rosso, che poi è un filo Neri (ride, ndr), è la mia esperienza che parte dal bambino che ero fino al giorno d’oggi, sulla quale poi cucio un racconto».
La musica ha infatti sempre fatto parte della sua vita, personale e artistica.
«Posso dire che è stato il mio primo amore. Mia madre mi raccontava che da bambino cantavo le canzoni che sentivo in radio e poi, negli anni Settanta, ho scoperto il mio gruppo preferito di sempre: i Bee Gees. Pensi che la prima volta che sono salito su un palcoscenico, a dodici anni, era per cantare le loro canzoni. La musica trasmette le emozioni più sorprendenti, che smuovono il nostro inconscio come nessun’altra cosa può fare e anche il piacere di suonare assieme ad altre persone non è secondario e ha un grande valore, sia che lo si faccia in un garage o davanti al pubblico».
Nella sua carriera si è confrontato più volte con l’opera di Fabrizio De André, ed è recentissimo il debutto dello spettacolo «La Buona Novella». Cosa la lega a Faber?
«Con Fabrizio De André la “frequentazione” nasce anni fa ed è uno degli artisti in cui la maggior parte degli ascoltatori, io tra questi, si riconosce per la profondità dei testi e per le riflessioni proposte. C’è inoltre un’affinità dal punto di vista del registro vocale, e lo stesso vale per Giorgio Gaber e Gian Maria Testa. Attraverso l’opera di De André è possibile parlare del passato ma soprattutto del presente, alla luce dei temi personali e sociali, attuali e importanti, che affronta».
Tornando a lei, negli anni l’abbiamo apprezzata come attore, doppiatore, conduttore televisivo e radiofonico, imitatore e cantante. Da dove nasce la sua ispirazione?
«Direi che tutto ciò che faccio nasce dalla curiosità e dalla voglia di esplorare: quello che porto in scena è frutto di questi aspetti, che mi hanno spinto negli anni a sfiorare diversi campi artistici. All’inizio di ogni progetto mi chiedo sempre: “Andrei a vedere, come semplice spettatore, questa cosa?”. Se mi rispondo di sì, allora proseguo su quella via».
Lo scorso anno ha fatto breccia nel cuore dei telespettatori con la serie «Il Santone», una graffiante satira della società contemporanea e del suo costante bisogno di miti.
«La serie esprime molto bene l’idea di una società smarrita che, nel momento in cui trova una guida – autorevole o finta che sia – la segue senza porsi troppe domande. Anche la politica viene interessata dal desiderio di individuare una figura in grado di risolvere i nostri problemi, salvo poi assistere ad ascese e discese repentine: si segue il fascino del personaggio di turno e poi lo si abbandona in virtù di qualcuno di più “fascinoso”. Il Santone non parla di politica ma di una storia inventata e ambientata in un quartiere popolare e ha come protagonista un personaggio senza particolari qualità che però diventa una guida comportamentale e spirituale per chi necessita di codificare il mondo a cui apparteniamo».
E il 2023 è l’anno in cui vedrà la luce la sua prima regia.
«Il film l’abbiamo girato in autunno tra Milano e il Piemonte e lo stiamo consegnando, con le ultime levigature, in questi giorni. È una storia ambientata negli anni Sessanta e che parte dal romanzo “Zamora” di Roberto Perrone: al centro troviamo un personaggio che impara a crescere anche grazie a una serie di duri colpi che riceve, mettendo da parte l’orgoglio per poter vivere una vita nel pieno delle potenzialità che può offrire e il tutto è ambientato nell’Italia del boom economico che, al di là delle conseguenze negative che ha portato, ha rappresentato una delle stagioni più belle per il nostro Paese».
È nelle sale anche con «Quando», ultimo film di Walter Veltroni, in cui si risveglia dal coma dopo 31 anni ritrovandosi in un’Italia cambiata sia dal punto di vista politico che umano. Una confessione: di tutti i capitoli «persi» dagli anni Ottanta a oggi, quale vorrebbe cancellare?
«Prima di risponderle sottolineo che sono grato a Veltroni per avermi offerto la possibilità di interpretare un personaggio che possiede una chiave comica e al contempo drammatica: è una storia che porta alla luce, con leggerezza, un Paese che socialmente e politicamente non c’è più. Cosa cancellerei di quegli anni? La perdita dell’innocenza che ci rappresentava: prima con il berlusconismo e poi con l’avvento di Internet che ha regalato una grande libertà ma allo stesso tempo ha creato una superficialità che ha sostituito quello che era il tessuto connettivo che apparteneva agli anni precedenti».
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