L'intervista
mercoledì 4 Settembre, 2024
di Claudia Gelmi
Scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico, Premio Strega nel 2015 con «La ferocia» (Einaudi), direttore del Salone del Libro di Torino fino al 2023, autore de «La città dei vivi» (Einaudi) – perturbante quanto superlativa ricostruzione letteraria del feroce omicidio di Luca Varani, avvenuto a marzo 2016 a Roma, da parte di Manuel Foffo e Marco Prato –, Nicola Lagioia è atteso a Trento, nell’ambito della rassegna Generazioni, martedì 10 settembre alle 18.30 alla Bookique. L’autore dialogherà con la giornalista Silvia Boccardi sul tema, ispirato al suo noto romanzo, «La città dei vivi. Dialogo tra giornalismo, finzione e attualità».
Lagioia, il tema dell’incontro che la vedrà protagonista a Trento prende spunto dal suo libro «La città dei vivi», per indagare i confini tra realtà e finzione, attualità e immaginazione. Qual è la sua idea in merito e come si pongono la letteratura e il giornalismo rispetto a questi confini?
«Quello che è strano è che nei Paesi anglofoni esiste un termine per questo tipo di narrazione, che si chiama “non-fiction novel”, cioè un’opera letteraria che, pur indagando fatti reali, includa le cifre della letteratura per quanto riguarda la scrittura, l’uso della lingua, il coinvolgimento emotivo, … È strano che nelle lingue romanze o in italiano non ci sia un termine per definire questo genere letterario, anche perché abbiamo una lunga tradizione di questo tipo di narrazione, molti esempi, come “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, i libri di Sciascia, come “L’affaire Moro”. Rispetto al reportage giornalistico, qui la creazione e l’impianto strutturale e linguistico sono propri della letteratura. Ma noi abbiamo una cultura per cui si tende a credere che degli aspetti della realtà si debba occupare lo storico, il criminologo, il giornalista, il filosofo, … Io non avevo messo in contro di scrivere una “non-fiction novel”: è successo perché ho avvertito una tale urgenza, un tale trasporto quando c’è stato l’omicidio di Luca Varani, forse anche perché è successo poco distante da me dal punto di vista geografico, che mi sembrava l’occasione per raccontare un tempo, quello in cui viviamo, e un luogo, Roma».
Ne «La città dei vivi» ripercorre di primo acchito la vicenda come un reporter d’inchiesta, ma trascendendo fin da subito quel ruolo e trasformando quelle circa 500 pagine in accesa letteratura. Si tratta di un romanzo, e di un metodo, che ricordano molto «A sangue freddo» di Truman Capote. Quali sono gli elementi che rendono questo tipo scrittura un romanzo universale, letteratura?
«Capote è un maestro di questo genere. Gli elementi per rendere letteratura questo tipo di scrittura sono innanzitutto il lavoro sulla lingua: la lingua letteraria, che si costruisce in modo diverso, è un’altra partita rispetto alla lingua che si usa per comunicare, perché porta emozioni, ha una sua capienza che è diversa dalla lingua informativa, dice delle cose, ma sono molte di più quelle che non dice e che sta al lettore dover andare a carpire. È una lingua di tipo interrogatorio, nel senso che le opere letterarie non danno mai una risposta definitiva di quello che raccontano, ma lo indagano a colpi di domande. La risposta spetta al lettore e le opere che noi amiamo è come se continuassero a interrogarci anche a distanza di anni. Quindi da una parte c’è un uso particolare della lingua, dall’altra una particolare costruzione drammaturgica nel senso che c’è un montaggio che diventa a sua volta strumento conoscitivo. Infine, c’è la possibilità di far emergere l’elemento emotivo dello scrittore. E quel tipo di sentimento, di emotività – quando la letteratura ha qualcosa da dire – non è un modo per ricattare il lettore, ma un modo per capire qualcosa in più. I sentimenti in letteratura sono strumenti che ci fanno capire cose che altrimenti non riusciremmo a cogliere».
Quanto le è rimasta dentro questa storia e come ha elaborato un male così perturbante?
«Io per quattro anni ho bussato alle soglie di queste persone e ho avuto accesso alla loro esperienza e alla loro elaborazione. Per quattro anni è stato l’ultimo pensiero con cui andavo a dormire e il primo con cui mi svegliavo. Poi, quando ho consegnato il libro, è come se mi fossi sentito buttato fuori da questa “famiglia”. Sono ritornato a essere un lettore di quella vicenda. Credo di aver avuto un atteggiamento sano, di autoconservazione. C’è stato un momento che ha segnato il punto da non oltrepassare, dove ho capito che avrei dovuto fermarmi: è stato il giorno in cui i signori Varani mi hanno invitato a portare dei fiori sulla tomba del figlio Luca. Dopo aver deposto i fiori, mi hanno invitato a casa loro e a un certo punto la mamma di Luca mi ha chiesto se volevo vedere la stanza del figlio. Ho detto di sì. Nel momento in cui ho messo piede in quell’intimità ho sentito che quella era la massima intimità cui avevo diritto di accedere, il confine oltre il quale non avrei potuto andare. Credo di aver sempre mantenuto il senso del limite, quello che invece gli assassini avevano smarrito. E questo ha fatto in modo che potessi uscirne sano, benché si tratti di una storia che sarà sempre con me».
Cosa le è rimasto invece dell’esperienza della direzione del Salone del Libro di Torino?
«Innanzitutto, sono orgoglioso di averlo lasciato più forte di come l’avevo ereditato. Poi senz’altro mi è rimasto l’affetto del pubblico del Salone. Sono stati sette anni molto intensi, è stata per me un’esperienza a tutto tondo che mi porterò sicuramente anche in altre situazioni».
A proposito di nuove esperienze, Lei è stato fondatore ed è direttore editoriale della rivista multimediale che si occupa di cultura, arti e attualità «Lucy sulla cultura». Come sta andando questa esperienza? Come vi siete collocati e differenziati nel mercato?
«Sta andando bene. Dopo un anno e mezzo, abbiamo avuto un buon riscontro in termini di abbonamenti. Essendo una rivista online, è arrivato un tipo di pubblico molto diverso da quello a cui siamo abituati. È arrivato il pubblico dei ventenni e dei trentenni, che ha un tipo di approccio e anche riferimenti diversi dai nostri e a cui magari puoi far scoprire tutta una serie di cose che non è scontato loro conoscano. Questo nuovo pubblico giovane, che non legge i cartacei, ha trovato in “Lucy” uno spazio da esplorare – e noi con loro –: sono interessati alla cultura, ma non hanno ancora capito qual possa essere il loro canale di riferimento, li muove la curiosità».
Un’ultima domanda Lagioia, che ci riporta all’inizio di questa conversazione: lei ha capito dove nasce e perché, in determinati casi, si manifesta il male?
«La storia del male è una storia che nasce con l’uomo. Quello che mi ha colpito della vicenda di Marco Prato e Manuel Foffo è che pur sapendo quello che hanno fatto, è come se per loro l’informazione non diventi mai conoscenza. Loro si raccontano come persone che hanno fatto una cosa terribile, ma non sanno nemmeno loro come sia stato possibile, non ne prendono coscienza, talvolta si raccontano come vittime. Siamo di fronte a chi fa il male e non lo riconosce, non riescono ad assumere in sé la responsabilità delle azioni: siamo lontani anni luce dal Raskolnikov di “Delitto e castigo” che invece meditava l’azione, la compiva, la rivendicava, se ne assumeva la responsabilità e infine poteva anche pentirsene. Per me questo è spiazzante e mi fa pensare che noi oggi temiamo il male che può essere fatto a noi, ma ignoriamo completamente il male che possiamo fare agli altri. E in Prato e Foffo questa ignoranza del male che loro stessi possono fare raggiunge il massimo. Questa è la cosa per me più sorprendente e perturbante, la difficoltà estrema ad assumersi la responsabilità. Mi sembra anche molto contemporaneo ed è forse l’aspetto nuovo che mi ha colpito di più».