Living Memory

domenica 15 Gennaio, 2023

Oleg Mandic, l’ultimo bambino che lasciò Auschwitz: «Fu orrendo, ci sono tornato 13 volte»

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Lasciò il campo di concentramento il 2 marzo 1945. Aveva 11 anni. «Dopo quel dolore la mia vita le mie visite sono state terapia pura, ognuna un giorno di festa»

Quando il fiume lento e silenzioso dei turisti si disperde, lui si presenta al cancello. Tira su la manica della camicia e mostra il numero: 189488. Il custode riapre tutto e si fa da parte. «Da lì mi dirigo verso la rampa dove arrivavano i treni e dove si svolgevano i primi approcci con il carico umano contenuto nei convogli. C’era soltanto un albero, che ora è stato tolto, con alcune foglie che immaginavo fossero le anime di quelli che ho conosciuto e che non hanno avuto la mia stessa fortuna. Mi sedevo sulle rotaie e iniziavo a conversare con loro». Auschwitz è lo spazio di un disegno di morte razionale («Ma io lo definisco industriale») che ha ingannato anche la matematica. La morte per approssimazione perché non vi è certezza di quante vite siano state inghiottite dalle camere a gas, dai forni, dalle malattie, dalla quotidianità pensata come disumanizzazione dell’umano. Ma Auschwitz può essere anche uno spazio di liberazione e di intima gioia. Un ossimoro? «No, le mie tredici visite ad Auschwitz sono state terapia pura, ognuna un giorno di festa. Per un anno, dalla mia uscita dal campo, ho provato ad immaginare qualcosa di più orrendo. Non ci sono riuscito, ergo – mi sono detto – dovrei avere una bella vita, piena di valzer. E così è stato: grazie ad Auschwitz ho avuto una bellissima esistenza». La vita piena di valzer è quella di Oleg Mandic, l’ultimo bambino ad aver lasciato il campo di concentramento il 2 marzo 1945. Ci arrivò il 2 luglio dell’anno precedente, il 15 maggio – all’età di 10 anni – venne arrestato insieme alla mamma e alla nonna ad Abbazia, vicino a Fiume, dove viveva. Suo nonno Ante e suo padre Oleg erano partigiani entrati in clandestinità.

La sua testimonianza, cominciata nel 1955, è stata sollecitata dal direttore di una rivista per la quale scriveva. Perché per dieci anni non disse nulla…
«Stavo facendo una riunione con lui quando entrò un collega ricordando che da lì a qualche giorno sarebbe stato il decimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Ho sempre pensato che fossero d’accordo. Il direttore mi chiese di scriverne: “Tu, Mandic, se un ingrato, in dieci anni non sei riuscito a capire che la tua esperienza è un dono. Il tuo dovere verso chi non ce l’ha fatta è parlarne affinché non accada più”. Mi sono infuriato e me ne andai. Poi a casa ho rimuginato su quelle parole. Ho capito che il torto era dalla mia parte. Dopo tre giorni scrissi il mio primo articolo e non ho più smesso. Sono trascorsi 68 anni».

Il ruolo di testimone dell’indicibile è a metà strada tra condanna o liberazione perpetua. Come l’ha vissuto lei?
«Non l’ho mai sentito come un peso o una condanna. Sono uscito da Auschwitz 78 anni fa e non l’ho sognato nemmeno una volta. Gli studi psicologici sui sopravvissuti dei campi di concentramento hanno dimostrato che questi si sono divisi in due categorie: il 60% non ha più voluto sentirne parlare, mi è accaduto spesso che studenti mi chiedessero della vita nei campi perché i loro zii o nonni non volevano sfiorare l’argomento; il 40%, invece, è preso da un’euforia da racconto per trasmettere quello che hanno vissuto. Per dieci anni ho fatto parte della prima categoria, la richiesta del direttore mi ha permesso di transitare nella seconda».

In quale relazione è rimasto con Auschwitz?
«Di solito, quando sono in difficoltà, prendo l’auto e guido fino al campo. Entro nel tardo pomeriggio, esibendo il tatuaggio, e rimango lì con il mio passato. Da un’ora a quattro ore. Quindi vado in albergo e la mattina percorro 900 chilometri per tornare casa. A quel punto sono pieno di energia».

Lei è finito ad Auschwitz perché sua padre e suo nonno erano oppositori politici del nazismo e non perché ebreo. Che differenza c’era nel campo?
«La prima, essenziale, è che quando il treno giungeva dentro al campo scaricava gli ebrei in fondo alla rampa, direttamente ai forni crematori. Noi scendemmo prima e fummo sottoposti alla prima selezione: inabili e bambini venivano uccisi quasi subito. Un altro elemento di differenziazione erano le serie numeriche dei tatuaggi – diverse anche per genere – e il triangolo posto sul vestiario che aveva il numero, l’appartenenza nazionale e un colore. Rosso per i deportati politici, verde per i criminali, nero per i sabotatori e giallo per gli ebrei».

Che cosa rappresentava il tatuaggio numerico?
«La transizione da essere umano a numero. Dopo i primi due o tre giorni si entrava in uno stato di apatia generale. Nessuno si interessava più a niente. La vita si consumava dalla mattina alla sera, poi ti coricavi e, se eri fortunato, non ti svegliavi il giorno dopo. Avevi terminato di patire. Nel campo c’erano verbi che cambiavano di significato…».

Per esempio?
«Nel lessico del campo la parola “rubare” non esisteva. Se trovavi un paio di scarpe comodo e non prestavi attenzione qualcuno poteva sottrarle. Non era tecnicamente un furto, ma un modo diverso di organizzarle. Se reclamavi rischiavi di passare per un fesso. Rubare rientrava nei tentativi di sopravvivenza. La speranza non era l’ultima a morire, era già morta. L’istinto di sopravvivenza della specie era l’ultima cosa che rimaneva».

Come è sopravvissuto?
«Per l’80% è stata fortuna, per il 15% amore materno, per il 5% abilità di un ragazzino a cui hanno rubato la gioventù».

È riuscito a rimanere con sua madre e sua nonna (nella foto) per due mesi…
«…poi hanno scoperto che in realtà avevo 11 anni e quindi dovevo essere trasferito nel settore maschile, da Birkenau (Auschwitz 2, ndr) – dove ero – ad Auschwitz. Probabilmente qualcuno aveva fatto delazione. Il passaggio implicava una visita medica e con la paura mi salì la febbre. Non potevo più essere spostato e nemmeno rimanere al femminile. L’organizzazione cominciò a vacillare per una fattispecie non prevista. Decisero così di ricoverarmi nel reparto dove Josef Mengele svolgeva i suoi esperimenti sui gemelli».

Non ebbe paura di non farcela o di finire in qualcuno dei suoi esperimenti?
«Un giorno si arrabbiò perché vide che stavo realizzando dei fiori di carta con forbici che mi aveva portato un’infermiera. Le restituì a lei sapendo che poi me le avrebbe ridate, ma voleva salvare la facciata. Capii presto che in quel reparto potevo stare bene e infatti mi fermai cinque mesi».

Intanto i gemelli sparivano da un giorno all’altro.
«Sì, era all’ordine del giorno e nessuno ci faceva più caso. Questo era Auschwitz».

Com’è stata la liberazione?
«Il 20 gennaio 1945 i tedeschi se ne andarono, poco prima avevano radunato i deportati e li avevano avviati alla “marcia della morte”, cento chilometri a piedi nel freddo e nella neve in cui morirono 40mila persone. Scampammo anche a questa prova perché la nonna non stava bene e trovammo il modo di nasconderci nel campo. Per una settimana, dal 20 gennaio, rimanemmo senza aguzzini. Eravamo 5.500, quando i russi arrivarono il 27 gennaio ne erano morti più di mille. Il loro orologio biologico sintonizzato con il campo di sterminio aveva cessato di battere. Il campo si riempì di un popolo strano e variegato: soldati, giornalisti, prelati, crocerossine. Con mia madre concordammo di cercare un esponente di rilievo per affidargli un messaggio da portare a casa: “La famiglia del dottor Mandic è stata liberata ad Auschwitz dall’Armata rossa”. Non ho mai capito che inviò la missiva, perché contattammo più persone, ma arrivò a destinazione nelle mani di mio nonno. Per una serie di circostanze rimanemmo ad Auschwitz ancora più di un mese finché il capitano del campo, un russo, non ci disse: “Siete rimasti gli ultimi, domani vi carico su un’auto e vi porto a Cracovia”. Quando quel giorno si chiuse il cancello di Auschwitz, era il 2 marzo, non sapevo che sarei rimasto nella storia. Lo scoprii solo trent’anni dopo».