Memoria

sabato 25 Gennaio, 2025

Oleg Mandic, “l’ultimo bambino di Auschwitz”: «L’unica persona gentile con me fu Mengele»

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Il sopravvissuto al campo di concentramento venne internato a 11 anni, sarà a Trento domenica 26 e lunedì 27 gennaio al Living Memory

A Oleg Mandic piace scherzare (in particolare sulla sua età) e ridere forte, mangiare bene, trascorrere il tempo con una famiglia nella quale è appena diventato bisnonno: «L’unica domanda veramente nuova che puoi farmi è come sta il mio bisnipote nato un mese fa», esordisce il 92enne. Incontrarlo è trovare davanti a sé un uomo come tanti, con un caratteraccio a volte, un bel senso dell’umorismo e umanità da vendere. Nello studio dove riceve gli ospiti che vogliono parlare con lui di Auschwitz, si incontra un uomo a cui è stata rubata l’infanzia, finita bruscamente a undici anni quando ha varcato i cancelli di Auschwitz, ma che ha saputo riprendersi la vita: ha fatto i conti con quegli anni che dovevano essere spensierati e pieni di sciocchezze e birichinate ma sono stati pervasi dalla paura. Ora ci scherza anche sopra, un velo di leggerezza buttato lì qua e là nella conversazione che mostra l’uomo dietro alla vittima di Auschwitz, ricorda quanta semplice, normale, umanità c’era dentro i campi, quanto facile è stato a quei tempi finire dentro un’orrore difficile da raccontare e comprendere nella sua vastità. L’uomo che è oggi Oleg Mandic ama scherzare, anche quando compie il suo atto di testimonianza, mentre racconta della morte come compagna naturale del suo essere bambino nel campo, dell’impossibilità di amicizia annientata dalla necessità di sopravvivenza, di Mengele che è l’unico ad avergli rivolto una parola gentile in tre mesi di urla e botte e quindi a quel ragazzino era parso un uomo gentile. Racconta Oleg, e quelle battute sul tempo che passa rendono la sua testimonianza ancora più onesta, ancora più potente: «L’altro giorno ero in compagnia e ho detto ai miei amici che dovevo riguardarmi perché avevo ancora tanti anni da attendere. “Attendere cosa?” mi hanno chiesto. E io gli ho detto: “Aspetto di diventare l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz al mondo, naturalmente!». E dopo un attimo, si torna seri: «Siamo ormai in pochi, meno di cento in questo momento, molti meno portano la loro testimonianza e poi tocca a voi, coloro che hanno sentito. Tocca a voi».
Alle cronache Oleg Mandic è noto come l’ultimo bambino di Auschwitz, lui che uscì vivo, con la nonna e la mamma, dal campo di concentramento e sterminio costruito dai nazisti in terra polacca e senza saperlo è entrato nella storia per essersi chiuso dietro alle spalle per ultimo il cancello del campo, immortalato in una foto in bianco e nero diventata simbolo della liberazione. Salito su un’auto russa mandata da Stalin a riportarlo a casa assieme alle donne di famiglia, rientrato poi a Belgrado sull’aereo presidenziale assieme a Tito (con il quale il padre e il nonno avevano combattuto nella resistenza antifascista, motivo per cui il piccolo Oleg, a 11 anni, con la mamma e la nonna era finito ad Auschwitz come oppositore politico) alla testimonianza di quanto è accaduto nei campi ha dedicato la seconda parte della sua vita. È in questa veste che parte ogni anno, da cinque lustri, dalla sua Abbazia in auto per partecipare a Living Memory, festival della memoria di Trento dove questa sera, e poi domattina per le scuole, racconterà la sua storia.

«L’ultimo bambino di Auschwitz», le sta stretta dopo tanti anni questa definizione?»
«Dirò perché mi piace ancora. Non è che dura da ottant’anni, ma da un po’ meno. Solo una ventina di anni dopo la liberazione ho capito che facevo parte della storia per quello che era successo: per puro caso sono stato l’ultimo ad uscire ad Auschwitz, non serviva essere giornalisti come me per capire che ero un pezzo di storia, mio malgrado. Me la sento addosso questa definizione e addirittura mi piace: mi ricorda che ho avuto una vita felicissima grazie ad Auschwitz ed è una cosa che ho capito nei miei trent’anni».

Auschwitz come fonte di felicità. È un’affermazione inattesa, e forte. Ce la spiega?
«Ero un giovane arrabbiato, irascibile, scontento. Lo sapevo il perché dentro di me, ma per tanto tempo non sono stato pronto ad ammetterlo. Mi cacciavo nei guai, nulla di troppo grosso ma pur sempre davo dei pensieri ai miei cari. Poi un giorno ho capito che alla fine, tutto questo odio che mi portavo dentro, questo risentimento per aver vissuto il campo, perché mi pareva che tutti se ne fregassero, per tutto quello che era successo e un sacco di altre cose che non sapevo nemmeno spiegare, faceva male solo a me. E mi sono impuntato, mi sono proprio impegnato a non odiare: si può fare, io lo so. L’ho fatto. E se l’ho fatto io, che arrivo da Auschwitz, allora nessuno ha scuse: non potete dirmi che voi non ce la fate, è una panzana. Mi sono arrabbiato ancora, mi sono scocciato magari. Ma odiato, mai più. Io ho imparato questo ad Auschwitz, a non odiare, e tutta la mia vita dopo quegli anni dentro il campo è stata felicissima: nulla di peggio poteva accadermi dopo quello che avevo già vissuto, e quindi io ringrazio Auschwitz perché mi ha fatto vivere una vita bellissima».

Oggi lei torna al campo, altri sopravvissuti hanno preferito non rimetterci piede. Cosa va a cercare lì dentro?
«Tranquillità di pensiero, pace. Ci vado quando ho una questione difficile da dirimere, un pensiero o una preoccupazione. Entro sempre alla chiusura, quando tutti i visitatori se ne sono andati. Mi presento al custode con il mio numero sul braccio, lo mostro e lui mi fa entrare. Non ci sono orari di chiusura per noi sopravvissuti e io preferisco l’imbrunire. Vado a ricordare, chi non ce l’ha fatta, tutti: quelli che ho conosciuto un po’ e quelli che non ho conosciuto: abbiamo vissuto tutti una cosa che ci tiene assieme anche fra sconosciuti, sento le loro anime e le saluto».

Anche Oleg Mandic ha compiuto un piccolo crimine ad Auschwitz, sulla sua scrivania c’è una pietra che arriva dal campo. Ci racconta la storia di quella maceria che si è portato via?
«È qui davanti a me (ride). I tedeschi fra Natale e Capodanno del ’44 hanno fatto saltare quattro dei cinque crematori lì a Birkenau, era l’inizio della fuga, il tentativo di nascondere le prove di quello che avevano fatto. Al giorno d’oggi ci sono ancora le macerie di quei forni nel campo, recintate, visitate… io torno regolarmente ad Auschwitz, e ad un certo punto durante una delle mie visite al campo ho pensato: “io vivo con il mio ricordo, ma perché non materializzarlo?”. Siccome era una cosa ovviamente vietata, l’ho fatta alla chetichella: mi sono preso una pietra del crematorio e me ne sono andato via. Dopo qualche anno l’ho confessato al museo: ho detto loro che i loro metodi di sicurezza non erano all’altezza se io ero riuscito a portarmi via un pezzo di crematorio. Lo uso come ferma-libri sul mio scrittoio. È una cosa che a me dà una quiete incredibile: ci sono delle macchioline nere sopra, residuo del fuoco credo: quando sono triste mi fermo un attimo a guardare questa pietra, ci vedo le anime di quelli che non ce l’hanno fatta a tornare indietro».

Ci fa un bilancio di questi lunghi anni di testimonianza?
«Non sono davvero così tanti, ho diviso le cose nella mia vita: sono testimone a tempo pieno solo negli ultimi ventisei anni, da quando sono andato in pensione dal mio lavoro, è qui che ho cominciato a incamminarmi con costanza sulla strada dell’antifascismo. Prima avevo anche io il mio lavoro che era tutt’altro giornalismo, mi occupavo di economia, non aveva nulla a che fare con Auschwitz. Negli anni ’70 c’era un giornalista che mi ha suggerito e anche aiutato a diventare testimone: io parlavo, lui scriveva, e abbiamo fatto un piccolo libro, ma allora nessuno è stato disposto a pubblicare la mia storia. L’abbiamo infine pubblicata a puntate nel giornale di questo mio collega invece di farne un libro. Allora ho pensato, se a nessuno interessa vadano tutti a farsi benedire, se nessuno vuole ascoltare io me ne torno alla mia vita. Poi invece mi ha tirato le orecchie un mio vecchio caporedattore: mi ha chiamato in occasione dell’anniversario della liberazione dal campo e me ne ha dette di tutti i colori: che avevo una responsabilità verso tutti quelli che non ce l’avevano fatta, che dovevo raccontare e smetterla di nascondermi (fingevo addirittura di non saper parlare il tedesco, perché non mi si chiedesse nulla dei campi). Mi sono arrabbiato tantissimo, sono andato via sbattendo la porta, ma lui aveva ragione e io lo sapevo. Ci ho messo quarantotto ore e poi sono tornato indietro e ho scritto un pezzo su Auschwitz. Ma a testimoniare veramente ho iniziato dopo la pensione».

Cosa è cambiato rispetto a quegli anni ’70 nei quali nessuno ha voluto pubblicare la sua storia di sopravvissuto allo sterminio?
«Ho iniziato a sentire attorno a me che c’erano persone disposte ad ascoltare, forse erano cambiati i tempi o la sensibilità. O forse ero cambiato io, sentivo che qualcosa, anche se tutt’oggi non saprei dire cosa di preciso, testimoniare mi dava. Non ho mai valutato cosa ricevo io dal testimoniare: ora che me lo chiede mi rendo conto che non ho mai visto la cosa da questo punto di vista. La vedo dall’altra parte: sono io che posso e devo dare qualcosa agli altri. Evidentemente a qualcosa serve anche a me perché continuo a farlo. Sento che la testimonianza di Auschwitz è l’antifascismo praticato, qualcosa che anche nella mia terza età posso fare per essere antifascista».

Oleg, se guarda all’attualità del mondo contemporaneo, le tante guerre, la rivalità fra Stati, l’egoismo fortissimo. Ha speranza per il futuro?
«No. Ma non per via delle guerre, ma per come l’umanità segue la natura più distruttiva: stiamo andando verso la catastrofe. Trump dopo due giorni dall’elezione subito ha deciso di uscire da ogni tipo di ragionamento serio e sovranazionale sull’ambiente. Perfino la natura è sporca, uccisa da quello che l’umanità fa. Alla mia età in fondo cambia poco, non mi importa molto per me, mi spiace per i miei nipoti e pronipoti. Tutto perché l’uomo in tutti questi secoli non ha imparato a organizzarsi facendo della sua storia, della sua memoria, qualcosa di positivo, che insegna. Mi danno terribilmente sui nervi i politici che una volta all’anno si trovano al loro monumento che ricorda una tragedia, qualunque essa sia, si cospargono il capo di cenere, dicono tante belle parole tra cui “Affinché non succeda mai più”. Quella frase mi fa imbestialire ogni volta: basta un salto in edicola a prendere il quotidiano e proprio in quel momento in cui stanno spendendo parole inutili e vuote troverebbero almeno tre posti nel mondo nei quali si sta ripetendo quello stesso orrore che stanno lì a ricordare senza aver imparato nulla. Io testimonio non affinché non succeda più, mai dico questa frase. Ma lo faccio perché quello 0,1 per cento di persone nel pubblico che forse potrebbe trovarsi in futuro a impedire un’altra atrocità, sappia opporsi. Sappia mettersi in gioco e dire no!».