L'intervista
mercoledì 29 Marzo, 2023
di Paolo Morando
Suo malgrado, anche Gemma Calabresi è un simbolo del passato italiano che non passa mai. Oggi, mercoledì 29 marzo, alle 20.45 sarà a Trento nell’aula magna dell’Arcivescovile, per un incontro pubblico organizzato dal Centro culturale «Il Mosaico», a partire dal suo libro «La crepa e la luce» pubblicato due anni fa da Mondadori. Da mesi la vedova del commissario, ucciso il 17 maggio 1972 da uomini di Lotta Continua – così le sentenze – lo sta presentando in tutta Italia, ripercorrendo così una delle vicende che più ha diviso il Paese negli ultimi cinquant’anni. Ma è un passato che non passa. Perché proprio ieri, da Parigi, è arrivata la notizia del no definitivo della Francia all’estradizione di dieci ex terroristi italiani tra i quali Giorgio Pietrostefani, dirigente di Lc all’epoca del delitto Calabresi, condannato in via definitiva al pari del leader del movimento Adriano Sofri (che ha scontato per intero la propria pena e da tempo è un uomo libero) e Ovidio Bompressi (l’esecutore materiale, graziato nel 2006 dal presidente Napolitano). Inevitabile dunque iniziare l’intervista con questa notizia.
Signora Calabresi, ha saputo che la Francia ha deciso di non concedere l’estradizione di Pietrostefani? Se la sente di commentare la notizia?
«Posso solo ribadire quanto ho già detto in più occasioni: quando la Francia decise di arrestare quegli uomini, ho avvertito un forte senso di giustizia. Finalmente la Francia riconosceva il valore delle sentenze italiane. E la giustizia su questa terra è un elemento importante. Però provavo disagio, poiché nel frattempo ho saputo che Pietrostefani, oltre a essere un uomo anziano, è anche gravemente malato. La possibilità che finisse in carcere non mi faceva piacere. Questo è ciò che penso anche ora. E aggiungo una cosa: ho pregato molto per lui».
Quando venne ucciso suo marito Luigi, la sua vita cambiò. Aveva 25 anni, due figli piccoli e un terzo in grembo. Come ricorda quella mattina?
«Appena l’ho saputo mi sono accasciata su un divano, con un dolore lacerante. Nulla aveva più senso. Non so quanto tempo sia passato. Poi, improvvisamente, ho percepito tutto come se fosse ovattato: non sentivo più il campanello suonare, non mi accorgevo della gente che veniva. Ho sentito di colpo un’assurda pace interiore, una sensazione fisica precisa, che ricordo ancora benissimo. Una sensazione di forza».
Lei nel libro identifica questo preciso momento come quello in cui le è sbocciata la fede.
«Sì, io ritengo di aver avuto quella sensazione perché quella mattina ho ricevuto da Dio il dono della fede. Tant’è vero che a don Sandro, che era lì con me, ho detto: recitiamo assieme una preghiera per la famiglia dell’assassino, che starà provando un dolore più grande del mio. Non è possibile che quella frase fosse farina del mio sacco: sono convinta che con quelle parole qualcuno stesse testimoniando la fede attraverso di me».
Però lei era già credente.
«Sì, ma per abitudine, perché così doveva essere: il segno della croce, l’andare a messa alle feste comandate… Era una questione familiare, me lo avevano insegnato. Solo dopo è diventata una mia scelta. E c’è una grande differenza con il credere per abitudine. Perché la fede è la vita stessa».
Uno dei passaggi più sorprendenti di «La crepa e la luce» è quando racconta del suo desiderio di vendicarsi di chi aveva assassinato suo marito. Scrive che avrebbe voluto infiltrarsi in gruppi di estrema sinistra, per cercare informazioni, e poi di incontrarlo e sparargli.
«Ho avuto anni bui, di sconforto e dolore, effettivamente fino al punto di avere fantasie di vendetta. Ma solo nel primo periodo. Oggi credo che allora lo Stato non fosse pronto, di fronte alla minaccia portata dal terrorismo, per poterlo davvero debellare. Però non sono una di quelle che dice “troppo tardi”. E quando il presidente Ciampi mi diede la medaglia al valore civile alla memoria di Luigi, io fui felice. C’era chi mi diceva: ma che cosa ti aggiunge questa medaglia? Ed è vero, io già sapevo come fosse Luigi. Ma il fatto che il presidente della Repubblica lo riconoscesse finalmente come un funzionario onesto, che faceva il suo lavoro con passione, costituiva un segno importante per l’intero Paese».
Nel 2009 al Quirinale, nel giorno della Memoria, Napolitano la fece incontrare con Licia Pinelli, la vedova dell’anarchico Giuseppe, morto precipitando dalla finestra dell’ufficio di suo marito tre giorni dopo la strage di Piazza Fontana.
«Quel 9 maggio Napolitano voleva dare un segno di pacificazione al Paese. Ma quando l’ho saputo mi è mancato il fiato».
Vi eravate mai incontrate prima?
«No. Però ho pensato: anche in quella casa, da un certo giorno in poi, non è più entrato un papà. Siamo state legate dalla stessa sofferenza, così come i miei figli e le figlie di Pinelli. E così ho pensato: sarà un bell’incontro, un giorno importante. A volerci nemiche erano certa stampa e certa politica. Noi siamo sempre rimaste in silenzio, un passo indietro. Di quel giorno al Quirinale ho un ricordo tenerissimo, l’abbraccio e le parole che ci siamo scambiate. “Finalmente”, dissi. E lei: “Peccato non averlo fatto prima”.
Già tanti anni fa aveva scritto un libro su suo marito e la vostra vicenda. Perché ora ha sentito l’esigenza di dargli un seguito?
«Questo libro racconta una storia diversa: il mio cammino, ciò che ho provato. Il mio dolore e la mia speranza. L’obiettivo è testimoniare questo mio cammino di fede e di perdono, mi sembrava arido tenerlo solo per me, sterile. Condividendolo, questo percorso diventa invece di tutti. E questo mi aiuta a non scivolare più: un tempo mi bastava leggere un articolo o una scritta sui muri, vedere un documentario televisivo, e mi prendeva la rabbia. E mi dicevo: sono cristiana, devo perdonare… Poi ho capito fino in fondo che la parola “perdono” va letta anche come “per dono”. Il perdono lo doni, non lo concedi solo per raziocinio. E così ho deciso che avrei perdonato come mia scelta, indipendentemente dal fatto che mi venisse chiesto».
Quindi il suo perdono nei confronti di chi ha ucciso suo marito è una scelta definitiva?
«Tanti dicono: perdono ma non dimentico. Ma questo significa provare ancora astio. Neppure io dimentico la ferita, però ho perdonato. Non sono più arrabbiata con chi mi ha fatto del male».
Scrive di quanto la colpì, a processo, vedere la figlia di uno degli imputati.
«Sono segnali. È uno dei tanti che ricevuto. Una persona non va collegata per sempre solo all’offesa che ti ha recato. Le persone camminano, cambiano. Che diritto avevo di relegarle all’atto peggiore che avevano compiuto? Le persone vanno guardate in altro modo, ne vanno comprese le fragilità. Così ho iniziato questo cammino».
Ha mai avuto dubbi sulla colpevolezza di Sofri, Pietrostefani e Bompressi?
«È stato il più lungo processo del dopoguerra. No, nessun dubbio. Ma tutti i giorni pregavo affinché non si trattasse di capri espiatori».
I suoi figli hanno seguito il medesimo percorso?
«Per loro è stato più complicato. Hanno però seguito un cammino di umanità. E quando scivolavo, erano loro a dirmi: dov’è finita la tua fede? Quindi capivo che mi volevano così, come sono».
A Trento, giovedì mattina, incontrerà anche i ragazzi dell’Arcivescovile. Che cosa dirà loro?
«Che l’ideologia acceca. E fa sì che non ci si voglia più informare. Dirò loro che prima di condannare una persona la si deve conoscere».