Il festival
lunedì 2 Settembre, 2024
di Maria Viveros
Relazione con se stessi attraverso il proprio corpo. Contatti con gli altri per creare comunità. Inclusione. Essenzialità. Sono questi i cardini dei lavori che il danzatore e coreografo Aristide Rontini presenta a Oriente Occidente. Si tratta di tre pezzi — «Lampyris Noctiluca», in programma il 2 settembre alle 22 al Mart, e il dittico «Frammenti di infinito» composto da «Back Eye Black» e «Corporale», al teatro alla Cartiera il 5 settembre alle 18 — nati da suggestioni legate al pensiero di Pier Paolo Pasolini, che per Aristide Rontini rappresenta una sorta di eredità da condividere. «Lampyris Noctiluca» — ispirato a «Il vuoto del potere in Italia», uno degli ultimi articoli di Pasolini uscito sul «Corriere della sera» l’1 febbraio 1975, poi incluso in «Scritti corsari» con il titolo «L’articolo delle lucciole» — sarà arricchito di audiodescrizione poetica curata da Giuseppe Comuniello e Camilla Guarino che renderà lo spettacolo accessibile a un pubblico cieco.
In quale misura la lezione del Pasolini politico è alla base di questo suo progetto?
«Le persone sono messe nelle condizioni di esprimere la propria singolarità che non è slegata dal gruppo. Ci si riconosce con un gioco di risonanze che portano a individuare radici comuni. Sono assenti gli stilemi del teatro politico perché il messaggio che voglio dare è espresso attraverso sottili dialoghi sotterranei come risultato della mia poetica che si scorge nella totalità del lavoro».
Lo spettacolo è diviso in tre atti indipendenti, tutti creati, però, a partire dall’immagine della lucciola pasoliniana, declinata di volta in volta in modo diverso.
Nel primo atto di “Lampyris Noctiluca” sono solo in scena: al centro della drammaturgia c’è il mio punto di vista interno per dare spazio alla narrazione di chi esperisce in prima persona una forma di disabilità. Ancora troppo spesso ci sono persone abili che parlano a nome di quelle con disabilità e distorcono la realtà.
Il secondo atto, “Back Eye Black”, è legato, invece, alla capacità relazionale delle lucciole, che si scambiano segnali luminosi nella notte, e alla tendenza “apocalittica”, molto diffusa oggi, all’uso delle immagini che priva di dinamismo e profondità i corpi. Attraverso un gioco di luci e la scelta del costume, che nasconde i volti degli interpreti, viene percepita in minor misura la loro individualità e più un’immagine piatta e stilizzata del corpo. Ho voluto creare dei paradossi percettivi tra visione e prossimità dei danzatori in scena. Per il terzo e ultimo atto, “Corporale”, ho lavorato sull’idea di donare un’immagine di società contemporanea la più eterogenea possibile, dando visibilità a tutte le persone che sono parte integrante della nostra società molto complessa, diversa per generazioni, generi, con persone con disabilità… I performer lavoreranno tutti assieme, proprio come il popolo delle lucciole».
Quando è entrata la danza nella sua vita?
«Ho avuto sempre un forte desiderio di fare teatro e l’occasione mi si è presentata quando, all’età di quattordici anni, ho partecipato a un laboratorio aperto a persone con e senza disabilità. Grazie a questa esperienza, mi sono sentito legittimato a entrare in quello spazio che mi ha aperto un vastissimo mondo culturale. Per diversi anni ho seguito laboratori e attività di una compagnia che studiava metodologie per lavorare con persone con disabilità di diverso genere e la mia docente mi ha invitato a studiare anche danza per il lavoro che viene fatto sulla fisicità. Ho una disabilità fisica (il mio braccio destro è sviluppato appena dopo il gomito), ma sono riuscito a gestirla grazie ad adattamenti personali e al sostegno degli insegnanti. Sono poi riuscito ad accedere alla Rotterdam Dance Academy che in quattro anni mi ha portato ad avere una preparazione di alto livello accademico. Le accademie di danza in genere sono ferme dal punto di vista dell’apertura alla disabilità e poco inclini al cambiamento, ma lì sono riusciti a vedere il mio talento. Una volta rientrato in Italia ho iniziato a lavorare come freelance a diversi progetti con varie compagnie, anche con quelle che rivolgevano il loro sguardo specificatamente agli artisti con disabilità. Ho fatto così esperienze importanti che mi hanno consentito di sviluppare un senso critico, per esempio, rispetto alle barriere che vivono le persone con disabilità, oltre ad apprendere pratiche di lavoro e di relazione accoglienti e artisticamente forti, accessibili e inclusive. Poi ho cominciato a presentare progetti come artista indipendente».
Il principio classico della perfezione legata alla bellezza come viene vissuto da chi occupa un corpo «non perfetto»? E come può la danza affrancarsi dai condizionamenti dell’idea del corpo «ideale»?
«Innanzitutto bisogna abbracciare la verità che il modello classico del corpo ideale è una mera illusione, facendo propria la consapevolezza che si tratta di un concetto culturalmente costruito che contiene valori obsoleti di controllo e perfezione e che rispecchia una ristrettissima minoranza di persone a livello globale. Ci si può affrancare da tali condizionamenti grazie alla pratica diretta del proprio corpo danzante attraverso attività di laboratorio che adottano metodologie che hanno come obiettivo di dispiegare il potenziale di ognuno. Solo allora ci si rende conto che in realtà i corpi sono tutti validi così come sono».
Come viene modificato l’estetismo della danza dall’intervento dei ballerini non professionisti che sono stati selezionati per animare «Corporale», l’ultimo atto del progetto «Frammenti di Infinito» che metterà in scena per Oriente Occidente?
«La scelta è caduta su danzatori e danzatrici non professionisti, ma anche su chi non ha nessuna esperienza di palcoscenico ma che coltiva la passione per la danza. Sono loro che ne arricchiscono l’estetica con il loro contributo, portando in campo una qualità di movimento che potrebbe essere percepita come “fragile” solo perché diversa da quella compiuta da un professionista che è abituato a lavorare con il proprio corpo. Il mio obiettivo è di creare un lavoro con una comunità eterogenea che tiene conto di diverse fisicità: non le vedo come dei limiti quanto piuttosto come opportunità. Nel laboratorio di preparazione allo spettacolo chiedo di generare spontaneamente dei movimenti. Offro degli stimoli per crearli partendo dal corpo di ognuno dei partecipanti, quindi dalle risorse di ciascuno, dalla conformazione fisica individuale e non dall’imitazione di un codice precostituito o dai miei movimenti. Lavorare con la comunità mi invita con entusiasmo a dare importanza alla semplicità del movimento, visto come valore, a una gestualità consapevole ma che sia anche molto semplice, per generare un’estetica minimale».
Da un corpo vissuto come «abitudine» si passa quindi a un corpo «abitato». Che conseguenze può avere questa nuova percezione di sé nella quotidianità?
«L’obiettivo è proprio quello di condividere un’esperienza artistica in cui i corpi in scena si sentano vivi. Le persone che vi partecipano entrano inevitabilmente in relazione con i bisogni del proprio corpo attraverso pratiche incentrate sulla lentezza, la capacità di respirare con calma, di guardare gli altri… Sono tutti bisogni umani del corpo che se riconosciuti e soddisfatti ci fanno sentire a casa nel nostro corpo. Può succedere, attraverso questa esperienza, che si inneschi un processo di consapevolizzazione sui bisogni inascoltati nel quotidiano, così come l’esperienza di comunità proposta e così poco praticata nella nostra società frenetica che, invece, tende a isolare. Alla base di questo lavoro collettivo c’è la mia richiesta di riflettere sulla qualità del gesto umano e sui gesti che stanno scomparendo. Cosa possiamo fare per farli sopravvivere? Ci dobbiamo chiedere a questo punto perché la disabilità venga percepita come un’irregolarità quando è una esperienza molto comune e diffusa: ci sono ancora troppe barriere che pregiudicano l’accesso e la partecipazione delle persone con disabilità alla vita pubblica, artistica, culturale e sociale del Paese. Nello specifico contesto artistico, dare spazio a spettacoli con performer disabili e creare accesso alla fruizione degli spettacoli a un pubblico con disabilità aiuta a disinnescare questa dinamica. La responsabilità di chi crea e di chi fa cultura sta nel rendere presente questo modo di vedere la realtà e denunciarlo affinché un fatto biologico non diventi un fattore di discriminazione sociale. Infine, la responsabilità ricade anche sul pubblico, che una volta cosciente di tale meccanismo, può adoperarsi per mettere in discussione la propria postura percettiva».
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