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domenica 1 Settembre, 2024

Oriente Occidente, Karima 2g e la «Lotta per le seconde generazioni»

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Karima 2g: «Vivo la mia arte in maniera provocatoria. Sono fiera del mio corpo nero»

Danzatrice, cantante, musicista, scrittrice e producer. In una sola parola poliedrica, in due parole Karima 2g. È questo il nome d’arte che ha scelto Anna Maria Gehnyei, artista romana di origini liberiane che l’anno scorso ha pubblicato il suo primo libro «Il corpo nero» (ed. Fandango Libri). Dallo pseudonimo, al titolo del romanzo fino ad arrivare alle sue canzoni, tutta la sua arte è «una provocazione continua». Un messaggio per rimarcare senza sosta il tema delle seconde generazioni, per portare avanti la battaglia di migliaia di ragazzi e ragazze che ancora oggi si sentono in una costante posizione di subalternità in un Occidente che li reputa ancora «troppo neri per parlare bene l’italiano». Karima 2g, già ospite a Oriente Occidente nel 2022 come danzatrice con il progetto «If there is no Sun», sarà nuovamente sul palco della rassegna in veste di scrittrice lunedì 2 settembre alle 18 all’interno della sezione Linguaggi, insieme a Jennifer Guerra nell’ambito dell’incontro «Di che colore è il movimento delle donne?».
Perché ha scelto il nome d’arte Karima 2g?
«Karima nasce da un percorso spirituale e artistico mentre lavoravo al mio album di esordio nel 2014. In quel periodo cercavo un’identità artistica e Anna Maria non si adattava alla mia produzione. Scelsi Karima perché sentivo che mi dava molta forza anche a livello spirituale poi aggiunsi 2g, che significa seconda generazione, come il titolo dell’album. All’epoca, era una realtà invisibile e un tema che, quando veniva trattato, acquisiva categoricamente connotazioni negative. Presi spunto dal movimento musicale black in America dove i primi rapper come Public Enemy usavano connotazioni negative per riappropriarsi della loro identità. La mia scelta nasce, appunto, come provocazione e chi mi conosce e mi segue sa che vivo la mia arte in maniera provocatoria».
Le piace il nome Anna Maria?
«Questo è e rimane il mio nome di battesimo e che i miei genitori scelsero per omaggiare la prima donna italiana che conobbero quando arrivarono in Italia, che per l’appunto, si chiamava Anna Maria. Per loro fu una sorta di riconoscimento a questa donna a cui loro furono molto grati ed è una pratica che in Africa si usa spesso».
Crede che i suoi genitori abbiano scelto di «occidentalizzarla» dandole questo nome?
«Mio padre fu il primo della famiglia a dare un nome occidentale ad un figlio: era proprio affascinato dalla persona che aveva conosciuto. Non penso lo abbia fatto con altri intenti».
Nel suo libro «Il corpo nero» parla di una riscoperta delle proprie radici avvenuta dopo il primo viaggio in Liberia. Ci racconti come è andata…
«Non voglio spoilerare il mio racconto (ride, ndr). Nel 2013 feci questo primo viaggio in Liberia. Da tempo sentivo che c’era una sorta di richiamo del mio Paese di origine ma tra la guerra civile, i costi sostenuti del viaggio, non ero riuscita ad andare prima. Per me fu una rinascita».
Quanto è durata la sua permanenza in Liberia?
«Meno di un mese ma a dire il vero è un viaggio che sto ancora elaborando. Sono tornata diversa con nuove intense consapevolezze che mi accompagnano tutti i giorni e che sono in continua elaborazione. Sono tantissime le informazioni che sono penetrate nel mio corpo, nel mio sangue e piano piano stanno prendendo forma dentro di me. Il libro è il primo testimone di quel viaggio che voglio lasciare alla generazione che verrà».
Si ricorda un momento particolarmente significativo del viaggio, un’epifania che l’ha segnata?
«A dire il vero sono moltissimi, dall’incontro con i miei parenti ai momenti più mistici fatti di magia e contatto con la natura che viviamo in Africa. Però, se devo sceglierne uno, è senza dubbio l’incontro con mia nonna paterna: fu un momento profondo e a pensarci ho ancora la pelle d’oca. Nei mesi prima della partenza la sognavo spesso. Sognavo di arrivare nel villaggio di mio padre, di correre disperatamente, di cercarla senza trovarla. Mi svegliavo con l’affanno. In quel periodo nonna stava molto male e pensavano che stesse per morire e che io non avrei fatto in tempo a incontrarla. Mi benedì invocando gli antenati. Fu un momento solenne. Nonna mi aspettava. Non sarebbe morta senza prima salutarmi. Questa è la forza dei nostri antenati».
Passiamo al titolo, «Il corpo nero»: ha usato un’immagine molto emblematica che mette in risalto solo la superficie, il suo lato esteriore. Come lo ha scelto?
«Torniamo alla provocazione. L’ho scelto per celebrare il mio corpo nero, e sottolinea lo sguardo esterno, ovvero, quello degli altri che mi ricordano costantemente che sono nera. Io sono fiera del mio corpo nero e devo trovare un modo per vivere in maniera armoniosa in uno spazio bianco. E noto con piacere che molte persone si rivedono nella mia storia e prendono consapevolezza. La cosa più affascinante è che le nuove generazioni, anche non afrodiscendenti, sono curiose di conoscere la realtà 2g».
Lei viene definita «troppo nera per parlare bene l’italiano, troppo nera per indossare degli abiti eleganti, troppo nera per essere istruita». È un po’ la maledizione delle seconde generazioni… C’è una fine a tutto questo?
«Durante un convegno, rimasi basita dai report sugli indirizzi scolastici dei ragazzi di seconda generazione, che vengono proiettati negli istituti professionali perché i professori ritengono sia un percorso più facile per loro. Ad alcuni viene detto “così puoi trovare subito lavoro e aiutare la famiglia”. Io credo nell’empowerment: a me era stato detto da alcune maestre alle elementari che, come figlia di immigrati, non avrei mai avuto successo, invece ho dimostrato il contrario. Ci sarà un momento di svolta perché è anche un discorso di rappresentanza. Dal cinema, alla scuola elementare: sai che bello per i bambini potersi rivedere nella maestra o nell’attore afrodiscendente? Iniziano ad esserci “i primi” e questo mi rende ottimista. Io, per esempio, sono la prima donna nera a pubblicare con Fandango Libri».
A proposito di primati, anche nella musica italiana si è mosso qualcosa. Ghali ha portato l’arabo sul palco di Sanremo con la sottile stoccata «sono un italiano vero». Cosa ne pensa?
«Ghali è un mostro. Quello che ha fatto richiede molto coraggio e molti ragazzi e ragazze di seconda generazione non credono di avere il coraggio necessario per dare una svolta. Io questo impulso lo vivo come una necessità per essere me stessa e gridarlo al mondo intero. Durante un concerto a Milano, anni fa, cantai “sono un italiano nero” davanti a ventimila persone. Non scorderò mai il silenzio che cadde sulla platea».
Parlando di musica, lei canta in pidgin-english, sua lingua madre. È una scelta stilistica o la fa sentire legata alle sue radici?
«In questo modo posso insultare tutti (ride ironica, ndr). A dire il vero mi viene più naturale, è una questione di sonorità. Ho provato negli ultimi anni a cantare in italiano ma mi fa strano, non ho ancora trovato la formula giusta, ci devo lavorare».
Quanto è importante il ruolo dei genitori immigrati nei figli di seconda generazione?
«Fondamentale. Capita che, talvolta, alcuni creino un distacco con il Paese di origine. Evitano le influenze delle loro tradizioni e costruiscono una barriera forse per tutelarsi da quella mancanza, da quel senso di assenza che crea la distanza dalla famiglia. Conobbi una studentessa di origine rumena che era arrabbiatissima con suo padre perché non le parlava della Romania e non le aveva insegnato la lingua madre. Lei sentiva di essere figlia di immigrati, sentiva questo forte richiamo alle radici e aveva bisogno di colmare il vuoto.
Vorrei puntualizzare che questa ragazza era tra le prime della sua classe. Lo dico proprio per sfatare il cliché negativo delle seconde generazioni».
I suoi genitori come sono stati?
«Loro, fin da quando ero piccola, mi hanno raccontato l’Africa e parlato in pidgin-english. Questa cosa in Liberia mi ha salvato la vita. Mi ha fatto sentire parte della comunità. C’era chi mi diceva “ringrazia i tuoi genitori che te l’hanno insegnata”».