Il festival
venerdì 30 Agosto, 2024
di Simone Casalini
La «globalizzazione» è forse la parola del nostro tempo più citata e presente ad ogni latitudine discorsiva. Ma non ha un procedimento univoco e lineare. Si è affermata nell’intersezione di molteplici processi, usando l’interdipendenza del commercio – come da retaggio coloniale – per esperire i primi tentativi di dare forma al globo. Il Novecento è stato, poi, un acceleratore. Lo è stata la tecnica (oggi tecnologia). Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, la mobilità, i combustibili. Il mondo si è accorciato, le distanze si sono ridotte, le differenze si sono mescolate. La globalizzazione non è, però, un fenomeno neutrale. E se alcuni suoi aspetti permangono e appaiono irreversibili, altri inducono a pensare che siamo immersi in una transizione. Fabrizio Maronta, responsabile redazione relazioni internazionali della rivista di geopolitica Limes, la fotografa nel suo ultimo libro dal titolo esplicito – «Deglobalizzazione. Se il tramonto dell’America lascia il mondo senza centro» (Hoepli) – in cui pone in rilievo un altro aspetto della globalizzazione, quello geopolitico e in cui ricostruisce ascesa e declino dell’egemonia americana in uno scenario tutt’altro che definito. Ne parlerà venerdì 30 agosto – alle 18, nella sala conferenze del Mart, nell’ambito del festival Oriente Occidente.
Maronta, una domanda che può apparire tautologica: cos’è la globalizzazione?
«La globalizzazione è un fenomeno che normalmente, nel comune sentire e nella pubblicistica, ha una connotazione prevalentemente economica. Sotto questo profilo può essere identificata come il processo di progressiva interconnessione funzionale dell’apparato produttivo e di consumo di varie parti del mondo. Tale processo è l’esito della modernità industriale e si è sviluppato attraverso due cicli temporali: il primo – dalla seconda metà dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale – legato all’affermazione della metallurgia moderna, della chimica, dell’industria farmaceutica, dei mezzi di comunicazione (radio e telegrafo), del petrolio e delle navi moderne; il secondo – che parte dagli anni Settanta e più intensamente Novanta fino ai nostri giorni – è favorito dal crollo dell’Unione sovietica e di tutte le alleanze ancillari che lo sostenevano. Il modello capitalista, a quel punto, non ha più argine e si estende al mondo. Afferma l’economia dei consumi, conduce all’allungamento delle filiere produttive. Questa è, a grandi linee, la periodizzazione economico-finanziaria».
Poi c’è la globalizzazione geopolitica da cui lei muove.
«La globalizzazione è figlia di determinate condizioni politiche e geostrategiche senza le quali non sarebbe stato possibile il secondo ciclo. Gli Usa escono vincitori da due guerre mondiali e da quella fredda. Se non ci fossero state una situazione di stabilità e soprattutto un codice comune che fungeva da grammatica di fondo questa interconnessione globale non ci sarebbe stata».
Quali sono queste condizioni?
«Intanto gli Usa escono egemoni dai conflitti da un punto di vista militare: hanno i mezzi e l’interesse per imporre e sovrintendere ad un tipo di ordine mondiale che favorisca gli scambi. Il ruolo della marina statunitense per presidiare, controllare e mantenere in sicurezza i trasporti via mare è essenziale. Il mare è, infatti, l’infrastruttura liquida della globalizzazione, veicolando oltre il 95% del commercio mondiale e il grosso del traffico dati, attraverso i cavi sottomarini in fibra ottica. Gli Stati Uniti sono anche i detentori dell’infrastruttura giuridica e finanziaria: la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, entrambi generati dagli accordi di Bretton Woods, hanno sede in America. I principali circuiti delle carte di credito e il sistema finanziario nel suo complesso è di impronta americana. L’America controlla il sistema di comunicazione interbancaria Swift, sebbene abbia sede in Belgio. E resta detentrice della moneta di riserva mondiale, il dollaro, insidiato ma non (ancora?) spodestato. Nonché della lingua veicolare. In sostanza, gli Stati Uniti impongono non solo il capitalismo e l’economia di mercato, ma anche l’organizzazione economico-finanziaria. Il canone. Il modo di esercitare il loro imperium deve molto al fatto di essere un Paese a libera economia di mercato che sceglie di integrare gli sconfitti attraverso il commercio. Dopo il 1989 gli Stati Uniti operano su questa linea: usano il commercio per rendere il più possibile affini gli avversari al loro sistema e scongiurare che tornino su modelli di contrapposizione. Il commercio, è il ragionamento, genera interdipendenze tali da rendere sconveniente muovere la guerra agli Stati Uniti».
Eppure questo modello appare in crisi e lei fa emergere alcune contraddizioni rispetto alla fine di un ciclo che indica come «deglobalizzazione».
«La contraddizione principe riguarda la forma politica dei Paesi integrati. L’attuale globalizzazione parte ufficialmente con il crollo dell’Unione sovietica, appuntamento storico cui la Cina arriva pronta in virtù del fatto che dagli anni Settanta gli Usa vi avevano esplicitamente puntato. Sia per risolvere i gravi problemi della loro economia indotti dalla fine del “miracolo” post-bellico e dalle crisi petrolifere, sia per rompere il campo comunista spezzando l’asse Pechino-Mosca. La visita del presidente Nixon e di Kissinger in Cina nel 1972, ricevuti da un anziano Mao, innesca un processo che porta la Cina ad aprirsi al capitalismo statunitense – prendendo dagli Usa il necessario per modernizzarsi – e gli americani ad accedere a un’enorme riserva di manodopera economica, capace e disciplinata anche in virtù di un sistema politico repressivo. La scommessa finale è che la Cina si democratizzasse. Oggi può sembrare ingenuo, ma quella prospettiva è anche l’esito dell’ubriacatura per il successo nella guerra fredda. La contraddizione risiede nel fatto che la Cina non ha seguito questo iter: è un’economia ipercapitalista, con una classe media notevole ma un sistema politico fortemente autoritario. Una Cina che, seppure obtorto collo, sostiene la Russia nella sua guerra d’invasione dell’Ucraina e mantiene stretti rapporti con la Corea del Nord. L’altra grande contraddizione che contribuisce al disamoramento degli Usa per la seconda globalizzazione è che la relazione con la Cina ha avuto un prezzo elevato: è vero che negli anni ‘70 ha aiutato a tenere bassa l’inflazione, ma al prezzo di una deindustrializzazione perché parte consistente del processo produttivo si è spostato in Asia, e segnatamente in Cina. Per molto tempo si è creduto che l’Occidente si sarebbe tenuto l’economia della conoscenza, lasciando la parte “sporca” e inquinante della produzione ai Paesi asiatici. Invece non è stato così. L’America ha perso quote di produzione, forza lavoro, competenze tecniche. Si è diffuso un certo malessere sociale. L’arricchimento della Cina senza un’evoluzione del suo sistema politico ha così finito per alimentare tensioni e ha indotto l’attuale tentativo di riequilibrare le interdipendenze puntando su altri Paesi asiatici come Vietnam, India, Filippine o Taiwan».
Lei descrive il processo d’integrazione europeo condizionato dalle teorie neoliberiste americane, portate poi agli eccessi. L’Europa appare sempre come un’incompiuta. Perché?
«L’Europa soffre la sua eterogeneità anche per via dei nuovi Paesi che si sono aggiunti. Vivono una fase opposta a quella dei Paesi fondatori, quasi risorgimentale: difendono il principio nazionale che per loro è una conquista. Inoltre, c’è un aspetto importante: ci siamo riempiti di una retorica sbagliata, del buon capitalismo contro il cattivo capitalismo americano. Ci siamo autoconvinti di avere dato vita a un modello diverso e virtuoso. Abbiamo sorvolato sul fatto che dal Piano Marshall in poi la costruzione europea è stata accompagnata dagli Stati Uniti, il che senza nulla togliere al contributo lungimirante dei “padri dell’Europa”, ci ha portato a sottovalutare quanto del modello americano impregnasse quello europeo. Del resto, la forza di un paradigma si misura anche e soprattutto dalla sua capacità di permeare il suo tempo, tanto da essere dato per scontato. La riprova è il Trattato di Maastricht, che consente la concorrenza fiscale ma vieta le politiche industriali – alias “aiuti di Stato” – recependo così appieno i dettami neoliberisti della Scuola di Chicago che postula la non interferenza dello Stato nel mercato. I neoliberisti però non hanno mai teorizzato l’abolizione dello Stato, ultima ratio se il mercato fallisce o va difeso armi in pugno da minacce esterne. In Europa invece ci siamo cullati nell’illusione che lo Stato avesse fatto il suo tempo, tanto da appaltare alla Bce di Mario Draghi la gestione della crisi dei debiti sovrani, in piena surroga della politica. Oggi che i venti della deglobalizzazione sollevano dilemmi geopolitici che richiedono scelte strategiche, i governi europei tendono a fare ognuno per sé, inseguendo Cina e America sul terreno dei sussidi alle imprese e del reshoring. Ciò non rende l’Europa inutile, ma dovrebbe quantomeno portarci a ripensarne i presupposti, gli strumenti e in parte i fini».