Il progetto
martedì 13 Agosto, 2024
di Ilaria Bionda
Raccogliere tutte le voci con un ruolo chiave nella delicata e complessa situazione trentina relativa alla convivenza tra uomo e orso. Dare spazio ai pareri tecnici – di forestali e veterinari – sulla gestione, alle paure che si diffondono, soprattutto tra le popolazioni montane, alle accese controversie tra politica e animalisti. È questo il compito di «Pericolosamente vicini», documentario del regista bolzanino Andreas Pichler e prodotto da Miramonte Film in coproduzione con Beetz Brothers Film Production, Sky Germany, Br e Awr, al cinema a Trento il 23 agosto (ore 20.30, Cinema Modena), a Bolzano il 24 (Filmclub, ore 20) e in tutta Italia dal 26, per poi approdare in televisione, su Rai 3, in autunno. Il film aprirà anche il festival «Coesistenze» il 29 agosto alle 20.30 al Centro Congressi delle Terme di Comano.
Com’è nata l’idea di un documentario che approfondisse la situazione della convivenza con gli orsi, considerando che è precedente all’incidente costato la vita ad Andrea Papi?
«Io vivo vicino a Bolzano e ho seguito il progetto relativo alla reintroduzione degli orsi, comprese le prime problematiche degli anni 2010. Ciò che mi ha fatto venire l’idea di occuparmi in maniera più approfondita della tematica è stata la storia di M49, conosciuto come Papillon. Le riprese sono iniziate nel 2022 e c’erano già conflitti e paure, anche se in maniera meno esasperata e drammatica rispetto ad oggi».
E com’è cambiata l’opera dopo i fatti dell’aprile 2023?
«Sicuramente è cambiato il tono del documentario, perché la storia di base di M49 poteva essere raccontata anche in maniera più “leggera”. Con i fatti dell’aprile 2023 è chiaro che la situazione si è fatta più drammatica ed è cambiata anche la struttura narrativa del film: al centro vi è stata da quel momento la vicenda attorno all’orsa JJ4 e alla morte di Andrea Papi».
Cosa avete percepito lavorando a cavallo di questo evento tragico? Quali sono state le reazioni emotive delle persone con cui avete interagito?
«Da documentarista non mi piace andare nei posti dove sono concentrati tutti i media; quindi, sono passate alcune settimane prima che riprendessimo il nostro lavoro. L’emozionalità era comunque fortissima, ho trovato la val di Sole traumatizzata. Anche per i forestali la pressione era altissima in quel periodo».
Nel documentario sono comprese diverse voci, ci può dire a chi appartengono e quale punto di vista esprimono?
«Ho cercato di riportare più o meno tutte le voci che giocano un ruolo in questa situazione complessa. I primi che avevo contattato, già quattro anni fa, sono stati i forestali e i veterinari, coloro che sono più a contatto con gli orsi, più avvezzi a capire i pericoli e a potersi esprimere sulla gestione, anche se poi le decisioni importanti sono in capo alla politica. Sono stati poi coinvolti gli allevatori, che riscontrano molte difficoltà a causa dei grandi predatori e ai quali si mostrano radicalmente contro. Un’altra categoria è stata quella degli animalisti, con un ruolo fondamentale per le loro influenza sulle decisioni politiche: ho cercato di approfondire cosa li porti a spingere le loro posizioni. Una parte molto importante del documentario è rappresentata poi dai genitori di Andrea Papi, affiancati dalle persone che semplicemente vivono nelle valli».
Cosa emerge quindi da queste voci in relazione alla convivenza tra uomini e orsi? Quale la situazione attuale e quali i punti più critici?
«Il documentario, attraverso questo coro di personaggi, seguiti anche nel loro lavoro, mostra che la situazione è più complessa di quanto pensiamo, così come lo sono le possibili soluzioni. Ciò che emerge chiaramente è che con questa morte la tolleranza e l’accettazione in qualche modo ancora presenti, anche se già in criticità, sono diminuite ulteriormente. È importante un’informazione approfondita e chiara, anche in merito alla gestione; quindi, l’abbattimento di un orso non deve e non può essere più un tabù. Un’altra questione importante che ci tenevo a sottolineare è che una delle soluzioni proposte dagli animalisti, ossia quella di portare gli animali problematici nei cosiddetti santuari, cioè luoghi circoscritti a loro dedicati, non è fattibile, poiché si tratta comunque di maltrattamento. A questo proposito racconto il destino dell’orsa Jurka, che ancora oggi tenta ogni giorno di fuggire dal recinto in Germania in cui è stata posta».
La morte di Andrea Papi è stata uno spartiacque anche in termini di gestione degli orsi, qual è la situazione attuale che emerge dal documentario?
«È anche questa una situazione complessa, le ragioni per le quali la gestione non è stata quella che doveva essere sono varie e le racconto nel documentario. Sia gli animalisti, sia la politica hanno le loro responsabilità, l’informazione che si doveva fare non è stata fatta nel modo corretto e tutto ha portato a una situazione ormai difficile da gestire. Non c’è un unico colpevole, adesso non ha neanche senso cercarne uno, bisogna andare avanti e trovare una soluzione».
Rispetto all’Abruzzo, dove la convivenza tra uomini e orsi sembra maggiormente sotto controllo, il territorio trentino montano è più antropizzato. È questa una delle cause dei problemi?
«C’è da dire che in Abruzzo, come in Trentino fino alla reintroduzione, c’è stata una selezione brutale: gli animali che si avvicinavano troppo all’uomo venivano abbattuti. Quelli rimasti sono quindi quelli più schivi. L’antropizzazione del Trentino sicuramente rende la situazione più complessa, e proprio per questo serve una gestione rigida, anche se ovviamente ogni singolo caso deve essere discusso da un ente autorizzato».
La grande domanda che sta dietro anche alla vostra ricerca è «A chi appartiene la natura?». Con il documentario vi siete avvicinati a una risposta?
«Si tratta di una domanda che rimane aperta. La natura è sicuramente un bene di tutti, perché ne siamo tutti ospiti e non ha senso discutere se ci siamo prima noi o prima gli orsi. Poi è chiaro che in una zona come il Trentino è più complesso, perché la presenza dell’uomo è maggiore da migliaia di anni. È una questione che va discussa e trattata, va trovato un compromesso, per questo credo ci vogliano delle tavole rotonde di discussione con le varie parti in gioco».