L'intervista
sabato 29 Giugno, 2024
di Anna Maria Eccli
A cavallo d’un ciliegio per golosi bottini, o a pancia in terra per rubare l’uva spina: qualche bella imprecazione contadina sarà di sicuro calata addosso ad Alex Zanotelli quando aveva le braghe corte. Il missionario comboniano era il più scapestrato tra i ragazzini del paese, ma in quella sua infanzia riottosa si celava un tesoro di pietà che sfocerà nell’indomabile coscienza critica che bene conosciamo e che oggi gli fa dire: «Ho vissuto una vita continuamente in crisi… mettendo in crisi». Agognando giustizia sociale e pace ha scosso gli ambienti tiepidi del clero, quelli rampanti del “civile consesso” disturbato negli affari, e la coscienza del singolo, alludendo a un Dio stanco, malato, che potrà salvarci solo se noi vorremo. Coraggioso, caparbio, coerente costruttore d’un ordine nuovo la cui chiave di volta è la non violenza attiva, Zanotelli, che compirà 86 anni il 26 agosto, domani 30 giugno festeggerà i 60 anni del suo sacerdozio missionario nella chiesa di Santa Maria (ore 18). Lui, che ha vissuto la denuncia come missione, nel 1985, scriveva del “volto italiano della fame africana” scatenando l’inferno a Roma. Fu accusato di incitare alla delinquenza terroristica internazionale. Si rifugiò tra gli ultimi, a Korogocho, baraccopoli della periferia di Nairobi, dove ha fondato una piccola comunità cristiana, una cooperativa che recupera rifiuti e dà lavoro alla gente, favorito la nascita di Udada, comunità di ex prostitute che aiutano altre donne schiave. Tornato in Italia, non ha perso il vizio della povertà, vive a Napoli, rione Sanità, senza telefono e senza auto, portandovi lo stesso amore di libertà del pertinace ragazzino d’un tempo.
Padre Alex, cosa ha determinato una personalità tanto tenace come la sua?
«A Livo, paesino dove sono nato, eravamo veramente in quattro gatti, 150 anime in tutto. Io ero uno dei ragazzini più indisciplinati, non semplicemente vivace, ero uno scavezzacollo. Ne combinavo di tutti i colori, andavo a rubare l’uva marina, le ciliegie. La scuola non mi piaceva, non avevo voglia di studiare soprattutto la matematica».
Cosa la salvò dai guai a cui porta la ribellione mal diretta?
«L’esempio dei miei genitori. Mia madre, con quel suo essere assolutamente disinteressata a se stessa, aperta ai problemi degli altri, mi spediva in giro, dai malati, da chi aveva problemi in famiglia; papà, grande lavoratore, ci ha insegnato la dignità. Antifascista, aveva perso la tessera del lavoro e andava a testa alta».
Sessant’anni da sacerdote sulle barricate, a fianco dei vinti, quale bilancio trae?
«Dovrei pensarci bene, i bilanci sono sempre impegnativi… ma una cosa la posso dire: sono contento di come ho vissuto perché ho imparato a non accettare mai le cose come stanno, ho saputo sempre ribellarmi, puntando il dito per cercare di cambiarle. Sono stato critico rispetto alla mia prima esperienza, vissuta in Sudan, quando, da professore che preparava gli studenti all’ingresso dell’università, vivevo in una casa carina mentre fuori dalle mura della scuola c’era una realtà dolorosa, assurda. Una situazione che mi ha portato immediatamente a ripensare che cosa significhi “fare missione”. L’esperienza da direttore della rivista Nigrizia, poi, è stata folgorante; ormai avevo capito che in Africa non si poteva tornare senza puntare il dito contro quello che là avevamo combinato e che si continuava a combinare».
Suscitò un polverone che le costò il posto di direttore della rivista.
«I “grandi”, Andreotti, Spadolini, fecero pressione in Vaticano perché me ne andassi, ma per me fu importante. Avevo capito: non si trattava solo di condannare il traffico delle armi, ma tutta la politica di cooperazione Italiana con la quale ci ingrassavamo».
Avrà conosciuto momenti di crisi.
«Davanti alle polemiche che salutavano le mie denunce piangevo e pregavo. Mi chiedevo se mi sbagliassi nel vedere ciò che cinquanta milioni di italiani non vedevano. Il dubbio mi prendeva, ma i dati che avevo sottomano erano evidenti e dovevo continuare a denunciare. La scelta di andare a Korogocho fu fondamentale. In Africa per vivere nei bassifondi: è stata questa la mia conversione. Dico che sono stato battezzato dagli impoveriti, dai baraccati: 12 anni in cui mi sono radicalmente convertito a un’altra visione del mondo. Al ritorno in Italia mi hanno imposto le mani invocando lo Spirito Santo affinchè mi accompagnasse nella “conversione della tribù bianca” e qui ho scelto di vivere in un rione difficile del Sud. La mia vita è stata così, continuamente “in crisi”, domandandomi cosa fosse giusto e cosa ingiusto».
Sentendosi anche solo?
«Sì, ma scoprire Gesù di Nazareth è una grande grazia. Gesù ha ispirato la mia vita, Lui ha inventato la non violenza attiva per incitare il suo popolo a reagire. Nel Vangelo dice spesso del suo essere solo. Alla fine, dobbiamo essere capaci di essere abbandonati da tutti. Ma bisogna avere una spiritualità profonda per reggere».
La “non violenza attiva” è metodo operativo, non pacifismo ideologico.
«Già, io non sono pacifista. La non violenza è una tecnica. Le prime comunità cristiane l’hanno veramente praticata e con uno stile di vita hanno messo in crisi un impero. «Se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, tu porgigli l’altra» significa non accettare l’umiliazione di chi ti giudica inferiore, rimettersi in piedi guardando negli occhi l’avversario. Con Costantino, però, il Cristianesimo è diventato altro e si sono benedette le guerre. Gandhi, che in un momento di grave crisi personale lesse “Il regno di Dio è in voi” in cui Tolstoj parla della “non-resistenza al male per mezzo del male”, ha ottenuto l’indipendenza dell’India dall’impero britannico senza sparare una cartuccia. La forza della nonviolenza lavora dal basso, ma prevede la capacità di pagare di persona. Ammiro i ragazzi di Ultima Generazione».
Oggi, deluso dai governi, dice che la speranza nasce “dal basso”. Ma tutti, non solo i potenti, esercitano prevaricazione, sfruttamento, furbizia e volgarità.
«È vero, purtroppo. Io mi sento in missione anche qui, in Italia. I miei sono stati 60 anni di sacerdozio missionario, il che è diverso dall’essere prete: chiede di mettersi in crisi continuamente. Purtroppo oggi la gente è nella massima indifferenza, ci stiamo disumanizzando, sentiamo sempre meno la sofferenza dell’altro come nostra e questo è drammatico. C’è davvero bisogno di una conversione, ma non è facile. Siamo prigionieri di un sistema che ha fatto del profitto l’unico interesse e il mercato è stato talmente intelligente da prenderci tutti nella rete del “capitalismo della sorveglianza”, come lo ha chiamato Shoshana Zuboff».
Il capitalismo industriale ha fatto male alla natura, quello della sorveglianza, che passa per la rete del Web, sarà disastroso per la natura umana.
«Già viviamo in un mondo assurdo, in cui il 10 % della popolazione mondiale consuma il 90 % delle risorse, e per poterlo fare deve armarsi fino ai denti. Per di più siamo topolini presi nella rete, mentre ci troviamo davanti a scelte drammatiche che ci possono fare precipitare nell’inverno nucleare delle guerre, o nelle estati incandescenti che trasformeranno il pianeta in un inferno. Mi preoccupa l’indifferenza delle comunità cristiane; se fossimo davvero seguaci di quel povero Gesù di Nazareth che lesse tanto bene il sistema del suo tempo da impegnarsi a cambiarlo, da diventare sovversivo, le parrocchie reagirebbero a un sistema di morte come il nostro. Invece non si studia l’enciclica «Laudato si’» di questo Papa profeta che dice chiaramente come questa economia uccida».
Come interverrebbe nella guerra tra Russia e Ucraina?
«Sono contrarissimo all’invio di armi. Non prendiamoci in giro, è una guerra voluta dall’occidente, lo ha detto chiaramente Biden, per indebolire la Russia e affrontare la Cina. Un piano che sta uccidendo il popolo ucraino».