la storia
lunedì 22 Gennaio, 2024
di Alberto Folgheraiter
«Avevo tutto: una bella famiglia, ero ricco, avevo una professione di prestigio, stavo addirittura per sposarmi. Per essere pienamente soddisfatto dalla vita che cosa poteva ancora mancarmi?».
Padre Angelo (1948) porta un cognome importante: Del Favero.
Oggi, probabilmente, ai più giovani dice poco. Ma nella seconda metà del XX secolo l’impresa di costruzioni «Codelfa-Del Favero» fu tra le più importanti del panorama italiano.
Liceo scientifico «Galilei» a Trento, laurea in medicina e chirurgia a Bologna, specializzazione in cardiologia, per alcuni anni nell’équipe del professor Francesco Furlanello all’ospedale «S. Chiara» di Trento. Poi, improvvisamente, nei giorni della «grande nevicata» dell’inverno 1985, la decisione di appendere il camice e prendere il saio: tra i Carmelitani, i religiosi che hanno chiesa e convento alle Laste, sulla collina di Trento. È stato ordinato sacerdote nel 1991.
Da medico del cuore a medico dell’anima. Due vocazioni, due percorsi di vita. Perché questa seconda scelta, così radicale e così singolare?
«Debbo risalire a quella che era una sensazione che ha accompagnato tutta la mia attività: come cardiologo e nei reparti di rianimazione. Mentre curavo i pazienti, partecipando un po’ alla loro ansia avevo l’impressione che la persona che mi trovavo di fronte nell’emergenza domandasse altro oltre la cura. Leggevo nello sguardo una paura non solo legata al contingente».
In che senso?
«Lo sguardo rivelava una verità di fondo: sto forse per morire e non ho ancora compreso il senso di questa vita».
Da qui la scelta del saio?
«Nella mia valutazione capivo che l’appello di quegli sguardi era quello di poter vivere per scoprire le radici della vita, la mèta, l’autore, il valore, il compagno di viaggio».
E questo la inquietava?
«Pur senza dirlo esplicitamente al paziente cercavo di fargli capire che il valore della sua vita era più grande dello stato di salute del cuore. Che quel momento fosse vissuto come un incontro con il cardiologo che dava un cuore nuovo, con colui che dà un significato all’esistenza».
Lei andò anche in India, da Madre Teresa di Calcutta.
«Quell’esperienza non fece che confermare quanto stavo maturando».
In famiglia come hanno accolto la sua decisione di lasciare tutto per ritirarsi in convento?
«Mio padre, che faceva conto su di me, unico figlio maschio, per proseguire con l’impresa, aveva sempre detto che desiderava la mia felicità».
Lei, in qualche modo lo aveva già “deluso” scegliendo la facoltà di medicina anziché ingegneria civile com’era nella tradizione della famiglia di suo padre (di 10 figli, sei laureati in ingegneria).
«Ci fu una circostanza favorevole. Mio padre, Ito, non si ammalava mai. Un giorno fu costretto a letto dall’influenza. Colsi al volo l’occasione e gli parlai apertamente. La mia vita, pur soddisfatta da ogni punto di vista, gli dissi, non lo era in profondità».
Insomma, gli rivelò la sua vocazione religiosa?
«Non mi soddisfaceva il solo esercizio della professione, confessai. Sentivo l’esigenza di una scelta che mi stava chiamando. Non sapevo ancora bene che cosa fosse ma non ero pienamente soddisfatto delle mie scelte».
A individuarne il percorso fu aiutato da un amico di famiglia.
«Mi sono affidato per quarant’anni al mio padre spirituale che fu don Piergiorgio Piechele, rettore del Seminario diocesano a Trento, il quale frequentava la nostra casa. E lui mi aiutò anche a far comprendere ai miei genitori la scelta che stavo per compiere. Con la mamma, Annamaria, avevo un feeling particolare, ma mio papà mi intimidiva».
Perché non si sentiva realizzato?
«Intuivo che tutto ciò che avevo: la professione, l’aspetto economico, l’affetto di una fidanzata, non mi bastavano».
A tale proposito lei era in procinto di sposare una giovane professionista, laureata in ingegneria, di Buenos Aires. Anche quella fu una delusione per i suoi?
«Soprattutto per mio padre fu una sofferenza non piccola. Mentre mia mamma, quando le dissi che avevo un’altra chiamata e non intendevo proseguire la relazione con questa ragazza, non fu tanto dispiaciuta. Perché comprese che io sarei sempre stato con lei».
A Trento e non in Argentina. Una curiosità: ha più rivisto la sua ex fidanzata?
«Sì una volta, anni dopo che avevo indossato il saio. Mi telefonò dalla Germania, dove si trovava per lavoro, e ne fui stupito. Doveva andare a Milano e disse che si sarebbe fermata per qualche ora a Trento. La incontrai alla stazione ferroviaria, prendemmo un caffè, parlammo a lungo».
Voleva sincerarsi che avesse preso i voti e non un’altra “novia”?
«Voleva capire se il motivo per il quale l’avevo lasciata, rimaneva. In un primo momento non aveva creduto alla crisi che era sopraggiunta nel nostro rapporto affettivo e che io spiegavo in termini di “chiamata diversa”. Anche perché avevo sempre detto a lei che Dio ci aveva fatti incontrare».
Quello stesso Dio che poi vi avrebbe divisi.
«Ogni sei mesi trascorrevo un mese a Buenos Aires, sono andato avanti così per qualche anno. Insomma tutto era indirizzato al matrimonio. Poi compresi che, pena un’indicibile contraddizione con la mia coscienza, non potevo non seguire un’altra chiamata».
All’età di un anno, mentre era in vacanza a Jesolo con la mamma, fu colpito dalla poliomielite. Questa menomazione ha accompagnato la sua vita. Ha plasmato anche la sua sensibilità?
«Direi di sì. Al di là delle sofferenze fisiche che ci sono state (ho avuto tre, quattro interventi chirurgici ortopedici) ho sempre interpretato la mia malattia non come una disgrazia ma al contrario».
Perdoni lo stupore…
«Non ho fatto fatica a interpretare la mia infermità come una chiamata. Forse perché, fin da giovanissimo, il dono della fede è cresciuto con me. L’avventura è cominciata in casa mia, con la lettura del libro “La montagna delle sette balze” (1948) di Thomas Merton. Era lì, tra i libri di casa».
Quanti anni aveva?
«Ero all’inizio del liceo scientifico, nei primi anni Sessanta».
Perché ha scelto il saio carmelitano e non un’altra congregazione o ordine religioso?
«Perché i libri che don Piergiorgio Piechele mi suggeriva riflettevano un interesse che non mi ha mai abbandonato: il mondo della preghiera. Mi aveva affascinato, tra le altre, la “Storia di un’anima” di santa Teresina (di Lisieux)».
Ha mai avuto qualche ripensamento?
«Se devo dire la verità: no. Ho fatto per sette anni il cappellano del carcere minorile di Treviso e più che fare prediche testimoniavo e raccontavo la mia storia».
Di ragazzo ricco, di famiglia perbene, con buoni studi e buone frequentazioni. Mentre loro, quei giovani, erano di altra estrazione sociale ed erano in carcere per furti, rapine, e altri reati.
«Dicevo loro: avevo tutto ciò che anche voi potreste desiderare. Avevo un buon lavoro, avevo una ragazza, ero ricco, eppure sentivo che mi mancava qualcosa. E l’ho trovato nella chiamata e nel dire di sì. E questa chiamata mi ha confermato che Dio esiste veramente. Ho lasciato tutto ciò che era materia per incontrare Dio».
Lei ha lasciato la sua cospicua eredità materiale per la fondazione del Centro di Aiuto alla Vita e per la casa che porta il suo nome e che accoglie le ragazze madri o in difficoltà. Non è da tutti.
«Non sono mai stato attaccato al denaro, pertanto non ho sofferto questo distacco. Per quanto riguarda poi la casa “Padre Angelo”, devo dire che, più che alla mia iniziativa, è dovuta al dottor Antonio Mazza. È stato lui che ha voluto dare a questa casa il mio nome».
Con il pediatra Antonio Mazza lei è andato anche in Uganda ad avviare una presenza analoga a quella trentina. Pare quasi che questa intitolazione le crei imbarazzo.
«Ma sì, come intenzione c’ero al cento per cento; come protagonista no. Ho chiesto un parere ai miei superiori e loro mi hanno consigliato di lasciar fare».
Il mese prossimo cade l’anniversario della morte di suo papà, Ito Del Favero (14 febbraio 2000). Qualche tempo prima di morire, a una nostra domanda su quale fosse stata la soddisfazione più grande della sua vita aveva risposto: «Il giorno in cui mio figlio Angelo è diventato prete». E si era commosso. Glielo ha mai detto?
«Mi ha sorpreso. Certo, mi aveva detto solo che lui desiderava la mia felicità».
L'INTERVISTA
di Anna Maria Eccli
Violoncellista, sposata con un principe africano, gira il mondo per lavoro. Nella città della Quercia ha deciso di comperare un rifugio dalla vita frenetica parigina. Proprio accanto alla residenza per cui i suoi avi si indebitarono