Teatro
domenica 29 Gennaio, 2023
di Federico Oselini
Come trasportare i sentimenti, i momenti malinconici e le risate dal cinema al palcoscenico? È stata questa la prima domanda che si è posto il regista Ferzan Özpetek quando ha iniziato a prendere corpo l’ipotesi di teatralizzare il suo successo cinematografico Mine vaganti. E la risposta sta proprio nello spettacolo che verrà proposto, da giovedì a domenica, al teatro Sociale di Trento e che vedrà protagonista l’attore diventato celebre con Boris, ossia Francesco Pannofino — assieme a Iaia Forte, Erik Tonelli e Carmine Recano – per portare in scena la pluripremiata storia dell’omonimo film del 2010 che punta i riflettori, attraverso la vicenda della famiglia Cantone, sui retaggi e sui pregiudizi di un Paese, il nostro, eternamente sospeso tra tradizione e modernità, tra discriminazione e tolleranza.
Francesco Pannofino, nel corso della sua carriera ha avuto grandi esperienze sia nell’ambito del cinema che in quello teatrale. Qual è, a suo avviso, il punto d’incontro tra questi due settori in «Mine Vaganti»?
«Sicuramente il punto di incontro è proprio la storia scritta da Ferzan Özpetek e raccontata prima nel film e poi nello spettacolo teatrale. Cinema e teatro hanno naturalmente mezzi di comunicazione diversi, ma che raccontano la stessa storia: il cinema si avvale di strumenti come il flashback, il primo piano e il montaggio, mentre il teatro ha un’inquadratura unica che però diventa esclusiva per ogni spettatore. È proprio quella la sua bellezza e posso dire che “Mine Vaganti” riesce nell’intento di emozionare a tal punto da far “dimenticare” il film dopo pochi minuti».
E infatti lo spettacolo ha riscosso grande successo.
«Il punto di forza sta proprio nella storia e nel fatto che il pubblico vi partecipa attivamente. Si crea così una potente alchimia basata sulle situazioni paradossali che nascono, dovute principalmente al fatto che i personaggi non sono consapevoli di quello che stanno dicendo: è qui che emerge la bravura dell’autore che è riuscito a riprodurre in teatro una storia senza pause né cambi di scena, capace di affascinare sotto innumerevoli punti di vista».
Com’è stato lavorare con Ferzan Özpetek?
«Lui ha partecipato a tutti i giorni delle prove, soffermandosi su ogni battuta e su ogni scena, e posso dire che ha amato molto questa messa in scena e che ogni tanto ci raggiunge per “riportarci” sulla terra dal momento che l’attore aggiunge sempre qualcosa. Nel complesso però si può dire che eravamo in una botte di ferro: la storia è vincente, la regia è di un grande maestro e la compagnia formata da grandi professionisti».
Lei porta in scena il personaggio di Vincenzo Cantone, padre di famiglia interpretato nel film dal compianto Ennio Fantastichini. Quali sono le sue emozioni?
«Oltre ad essere stato un amico, Ennio era un attore eccellente: se devo essere sincero, avvertivo all’inizio un grande senso di responsabilità, poi ha vinto il piacere e l’onore di poter interpretare un personaggio che lui aveva fatto così bene al cinema. Con lui ho girato un film che si chiamava “Notturno Bus”, poi ci siamo incontrati altre volte prima che se ne andasse e non c’è una sera in cui, prima di andare in scena, non lo pensi anche solo per un attimo».
Ci racconta, attraverso i suoi occhi, questo personaggio ironico e al contempo drammatico?
«È un uomo che è vittima dei suoi pregiudizi e di retaggi difficili da scardinare: la scoperta dell’omosessualità dei suoi figli è per lui un dramma. Si preoccupa principalmente di quello che i suoi compaesani penseranno e quello che lo tormenta è principalmente il giudizio degli altri. Con semplicità la sua storia ci racconta come un semplice salto mentale, una cosa normale, può invece diventare una tragedia. Özpetek, quando lo mise in scena, disse che alla fine il pubblico avrebbe dovuto provare quasi pena nei suoi confronti e infatti, quello che dovrebbe essere un personaggio antipatico e scontroso, alla fine viene quasi perdonato».
Il coinvolgimento del pubblico è quindi un aspetto fondamentale.
«L’intuizione vincente è stata trasformare la platea nella piazza del paese, dove si svolgono alcune scene: ce n’è una, per esempio, in cui Vincenzo viene spinto dalla famiglia a uscire e ad affrontare il giudizio della gente, e il pubblico all’inizio è spaventato da quello che posso fare. La cosa bella è che, quando scendo dal palcoscenico, vedo in faccia gli spettatori presenti e mi rendo conto che sono felici di prendere parte, pur non attivamente, allo spettacolo».
Qual è il valore di portare in scena determinate tematiche civili?
«Gli artisti hanno il dovere di provare a scardinare questi retaggi antichi difficili da superare: le persone devono essere libere di essere felici per quello che sono. Chi fa arte, cultura e informazione ha il dovere di dare sempre il suo piccolo contributo in tal senso. Perché, come si dice, è goccia per goccia che si fa l’oceano».