L'intervista
domenica 25 Agosto, 2024
di Lorenzo Fabiano
«Canè ce l’ha fatta! Canè ce l’ha fatta!». Così, con la voce strozzata dall’emozione Giampiero Galeazzi mise la chiosa su una tennismachia rimasta nella storia; era il 6 aprile del 1990 quando a Cagliari Paolo Canè sconfisse al quinto set al termine di un’epica battaglia Mats Wilander consegnando così all’Italia il punto decisivo nell’incontro di Coppa Davis contro una Svezia che, almeno sulla carta, pareva uno scoglio insormontabile. Un’impresa. Talento e fragili nevi, genio e sregolatezza, un irregolare nell’accezione più romantica del termine, ma su una cosa Paolo Canè metteva tutti d’accordo: non si tirava mai indietro e in Davis dava tutto ruggendo come un leone. In quanto a pathos, pochi giocatori sono stati coinvolgenti e trascinanti come lui.
Paolo, una carriera tra alti e bassi, rimpianti?
«Nel bene e nel male ho sempre dato il massimo. Tornassi indietro, curerei meglio aspetti come la preparazione e la programmazione, senza affrettare troppo il rientro in campo dopo gli interventi che ho avuto. Questo senza accampare scuse, perché non l’ho mai fatto. Oggi è tutto diverso, i giocatori hanno i loro team; c’è quello che ti gestisce questo, quello che ti gestisce quello, chi ti fa la tabella d’allenamento, chi ti dice cosa mangiare. Diciamo che ai miei tempi dovevi un po’ arrangiarti».
Gianni Clerici la battezzò «Neurocanè»; quel nomignolo le dava fastidio o tutto sommato ci rideva su?
«Ai tempi per la verità mi dava fastidio; “Neuro” significa che hai dei problemi mentali, e quindi non è un bel soprannome da portarsi quando sei un ragazzo. Devo anche dire che incontrai Clerici al Foro Italico a una delle ultime edizioni degli Internazionali che commentava, e lui mi chiese scusa per questo».
Il meglio lei lo dava in Coppa Davis.
«Giocare per la maglia azzurra, giocare per l’Italia e un popolo stupendo, mi dava una gran carica. La Davis la sentivo tantissimo. Per il giocatore che ero, non sarei mai potuto andare avanti in uno Slam perché a livello mentale non riuscivo a ricaricare le batterie; potevo sparare tutto in un giorno o due, e quindi la Davis era l’ideale per me. In un incontro secco potevo veramente far male».
Adriano Panatta era il suo capitano, che rapporto aveva con lui?
«C’è sempre stato un bellissimo rapporto. Odio e amore, ma io l’ho ho sempre rispettato. Adriano è stato un grandissimo capitano, è un grande personaggio e, certo non devo scoprirlo io, per me lui è il tennis italiano».
Oggi lei il tennis lo insegna nella sua scuola a Bergamo e lo commenta in Rai.
«Insegno tennis a Bergamo, a Gorle; da tredici anni ho una mia scuola di tennis e sono contento di quello che faccio. Mi piace molto anche commentare le partite in tv, perché provo le stesse emozioni di quando giocavo. Devi però stare molto attento, perché non ti puoi mettere a urlare a ogni punto; poi, al limite, su un risultato importante, ci sta che vai anche un attimo di fuori giri. Io mi emoziono sempre di fronte ai giocatori italiani e a un bel risultato. È successo alle Olimpiadi con le medaglie delle ragazze e di Musetti. E con Sinner in Coppa Davis a Malaga. Sono emozioni molto forti che ti fanno capire quanto ami questo sport e quanto è bello commentarlo, perché non c’è cosa più bella del tennis».
A Parigi qual è stata l’emozione più grande?
«Intanto, tornare lì al Roland Garros. Sono tornato dopo trent’anni, avevamo una magnifica cabina di commento sul Philippe Chatrier e io su quel campo ci avevo giocato. E poi le medaglie, il bronzo di Musetti e l’oro di Errani-Paolini nel doppio femminile. Musetti è stato bravissimo, perché arrivava dalla finale di Umago e ha fatto un ottimo torneo mostrando una grandissima condizione: ora deve continuare così. A Parigi faceva un gran caldo. Il giorno che la Paolini ha perso in singolare c’era un’afa pazzesca, e secondo me lei è arrivata un po’ provata dopo quanto ha fatto al Roland Garros e a Wimbledon. In doppio lei e Sara Errani hanno fatto un gran lavoro, ci credevano e hanno conquistato l’oro. Sara Errani ha chiuso un cerchio nella sua carriera. Ho incontrato Musetti e le ragazze a Casa Italia, sono stato lì a parlare con loro ed è stato molto bello».
Lei la medaglia olimpica la conquistò nel 1984 a Los Angeles.
«Vero che allora era sport dimostrativo, ma quella medaglia ce l’ho a casa ed è uno dei ricordi più belli di tutta la mia carriera. Avevo 19 anni, ero un ragazzo. Io e Raffaella Reggi prendemmo il bronzo, al ritorno in Italia fummo ricevuti dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini al Quirinale, una giornata memorabile».
Djokovic immenso, se lo aspettava?
«In diretta mi sono scusato con gli spettatori: “Alcaraz ha 21 anni e Djokovic ne ha a 37, quindi è l’ultima chance che ha. Non me ne vogliate, ma faccio il tifo per lui” ho detto».
Sinner a Parigi non c’era, forfait per la tonsillite. C’è però sempre qualcuno che su questo ragazzo ha qualcosa da ridire. Ma lasciarlo un po’ tranquillo, proprio no?
«Sinner è il numero 1 del mondo e su di lui bisogna scrivere sempre qualcosa per far notizia. A Parigi non è andato perché non stava bene. Se poi lui per non rischiare di compromettere classifica e stagione, salta l’Olimpiade, chi gli può dar torto? È una scelta legittima che può piacere o non può piacere, ma va rispettata. Si sa come vanno queste cose. Su quelli che, come lui, stanno in alto tutti sono sempre pronti a puntare il dito contro quando qualcosa non va, per poi esaltarli quando vincono. Mi hanno anche chiesto cosa pensassi del fatto che andava al mare in Sardegna con la fidanzata…»
E lei cos’ha risposto?
«”Sarebbe un problema se non ci andasse”, gli ho detto».
Ora, è finito nel ciclone per questa vicenda di presunto doping dalla quale è stato scagionato. «Mi lascio alle spalle un periodo triste», ha detto Sinner. Come dire che i malanni li aveva nell’anima. Lei che idea si è fatto?
«Se c’è un reato ok, ma se non c’è le parole stanno a zero. L’Atp lo ha scagionato, punto. Gli han detto “c’è qualcosa che non va, ti faremo sapere” tenendolo per mesi sulla graticola. Con una spada di Damocle come quella non puoi essere tranquillo, non ci sei con la testa. Eppure, lui ha vinto partite e tornei. Così reagiscono i numeri uno. E lui è uno che guarda avanti».
Tennis e doping. Ai suoi tempi ha mai sentito odore di zolfo?
«Se ne parlava, c’erano giocatori chiacchierati ma zero conferme. Alla finale di Monte Carlo del 1995 Becker lanciò insinuazioni sul conto di Muster che lo aveva battuto in rimonta al quinto set, dopo che il giorno prima l’austriaco era stato in ospedale a fare le flebo perché non si reggeva in piedi dopo la semifinale con Gaudenzi (dopo la finale con Becker, Muster si sottopose al controllo antidoping e risultò pulito, ndr). Io con Muster giocai in Davis, e scoppiò un casino: al quinto set aveva i crampi e il match venne interrotto. Al ritorno in campo, non mi fece fare neanche un game. Senza prove, sono però tutte cose che ti canti da solo».
Scattano gli US Open: favoriti?
«I soliti: Sinner, Alcaraz, Djokovic, più Medvedev e Zverev».
Ricordi degli US Open?
«Una volta mi ruppi un piede in doppio con Simone Colombo. Un’altra volta, dovevo giocare le qualificazioni: presi un taxi per Flushing Meadows, ma il tassista non capì e mi portò da un’altra parte, nel posto sbagliato. Arrivai in ritardo per la firma, rimasi escluso e non potei giocare. Se li immagina i comment?».
Col tempo ha messo la testa a posto.
«Tanti da giovani sono bravi e perfettini, poi da grandi schizzano e diventano cattivi e permalosi. Io ho fatto l’esatto opposto. Negli anni sono maturato, mi sono tranquillizzato grazie all’educazione, la famiglia e il lavoro. In campo era la tensione a mandarmi fuori giri».
Dai che gli italiani le han sempre voluto bene.
«Se guardiamo i risultati, non ne ho fatti così tanti. Fossero venuti, mica li avrei buttati via eh. Ma la cosa più importante sono le emozioni che hai dato, e io ho dato tutto quello che avevo».