L'intervista
venerdì 1 Dicembre, 2023
di Gabriella Brugnara
Riproponiamo una delle interviste maggiormente apprezzate da lettrici e lettori del T nel corso del 2023.
«Tra pista e seggiovia sono dieci ettari di bosco. A cinquecento piante per ettaro, fanno sulle cinquemila». «Voi non sapete cosa può diventare quel fiume dopo un solo giorno di pioggia battente». «Il lato all’ombra […] aveva a che fare con l’alcol. L’alcol aveva a che fare con suo padre e suo fratello». «Ma è dalla notte dei tempi che gli uomini tagliano le piante, accoppano le bestie e si sfondano la testa a vicenda. Se c’è del male su questa terra è solo roba nostra».
Se il titolo del nuovo romanzo di Paolo Cognetti «Giù nella valle» (Einaudi, 2023; pp. 128; 16 euro) può far pensare a una storia che si svolge «in basso», tutti i riferimenti e valori, le memorie, i brevi dialoghi, i lunghi silenzi» portano «lassù», invitano a riflettere attorno al difficile equilibrio delle Terre Alte. Narrano di luoghi come Fontana Fredda, che di abitanti ne conta «sette. Sempre se oggi non è morto nessuno». Una scrittura secca, asciutta, levigata quella di Cognetti, che i non detti rendono più densa, a tratti evocativa.
Unica tappa in Trentino Alto Adige, martedì alle 20.30 Paolo Cognetti dialogherà con il violoncellista Mario Brunello al Muse in un incontro che intreccia musica e parole. L’evento è frutto della collaborazione tra lo stesso Muse, La Piccola Libreria di Levico Terme, Arte Sella, Montura e Levico Acque.
Paolo Cognetti, perché questo intento, consegnato al titolo, di scendere da «Le otto montagne» per estendere lo sguardo «Giù nella valle»?
«Perché io non sono uno scrittore di montagna. Ho scritto un ciclo di libri ambientati in montagna durato dieci anni e scriverò romanzi ambientati a Milano, mi sposterò altrove, la scrittura mi segue».
Un ciclo che considera, dunque ultimato?
«Avevo voglia di scendere dai ghiacciai. Il mio precedente romanzo “La felicità del lupo” parlava di sentimenti alti, nobili. Era quasi una favola su questi esseri umani che si vogliono bene ad alta quota. Della montagna conosco bene anche l’altro lato, quello duro, brutto e cattivo. I nostri due grandi scrittori di montagna sono Mario Rigoni Stern e Mauro Corona, e certo Corona ha raccontato più il buio, l’isolamento, la rabbia, l’alcolismo».
Sono tratti che appartengono anche al suo libro. L’alcol «scorre» tra le pagine.
«Per quanto riguarda l’alcolismo, anche Milano è una città molto alcolica. Il punto è che in montagna il male è molto più visibile. Come tutto il resto, mentre la città nasconde di più».
Il bosco è una grande protagonista di «Giù nella valle». Ogni pianta ha un nome, e quando Luigi e Alfredo nascono, per ciascuno di loro il padre pianta un albero, rispettivamente un larice e un abete. Crescendo, i due ragazzi, finiranno per rispecchiarsi nelle caratteristiche del «loro» albero.
«Un giorno un mio amico e vicino di casa mi fa: “Guarda, questi siamo io e mio fratello,” ed erano appunto un abete e un larice. Ormai so già che quando sento questi racconti finiranno in una storia, la montagna rappresenta una fonte infinita di ispirazione per me. Ho dato spazio ad abete e larice perché sono gli alberi “della mia quota”, 1900 metri alla fine del bosco (a Estoul, in Valle d’Aosta, dove Cognetti ha il “suo” rifugio ndr). Due alberi che, pur essendo fratelli, nel senso che vivono alla stessa quota, affrontano gli stessi problemi – quali lunghi inverni e grande freddo – li superano in modo completamente diverso».
«Tu, larice, sei destinato a crescere al sole, a tirarti su in alto, duro e fragile, e ondeggiare nel vento. Tu, abete, invece crescerai ombroso, ma forte e resistente, protetto dagli aghi anche in inverno» dice Alfredo nel romanzo.
«Il larice ama il sole, d’inverno perde gli aghi, va in letargo. L’abete invece tiene duro, anche durante l’inverno la sua vita vegetativa continua. Ama l’ombra, è più elastico e resistente. Ho iniziato ad approfondire gli alberi leggendo “Arboreto salvatico” di Rigoni Stern, in cui ogni capitolo è un albero e ogni albero un carattere, un personaggio».
Così Elisabetta, la moglie di Luigi, è invece betulla.
«Ci sono casi strani, che ti fanno pensare alle coincidenze, al destino, nel senso che io avevo già deciso di chiamarla Elisabetta. Il nome salta fuori dal mio libro precedente, “La felicità del lupo”. Quando sono incappato nella “Battaglia degli alberi” di cui parla Robert Graves ne “La Dea bianca”, ho immaginato che gli alberi combattano contro gli uomini che stanno abbattendo il bosco. Ho scoperto che già in antichità betulla è Beth, da qui Elisabetta, che è proprio il nome della femminilità, significa fanciulla».
Il tema del femminile è molto presente nel romanzo.
«Elisabetta è acquatica, delicata, gentile. Il tema dell’acqua attraversa la storia, con la Sesia, questo fiume chiamato, appunto, al femminile».
Forse, più delle persone, i protagonisti sono però gli animali. Nel primo racconto le lotte tra cani sono dure e spietate.
«È una storia ispirata a «Nebraska» di Bruce Springsteen, che è allo stesso tempo una storia d’amore, perché i due giovani amanti sono innamorati ed è un on the road, cioè una fuga verso un orizzonte che nel mio caso non è il West, ma è l’altezza della montagna, anche se sarà irraggiungibile. Al contempo è un giallo, nel senso che questa fuga si trasforma in una scia di sangue».
Perché ha scelto di costruire questa storia con i cani?
«Da tanto tempo sono un grande ammiratore di Jack London, “Il richiamo della foresta”, in particolare, mi sembra un capolavoro inarrivabile. Non mi piacciono i racconti in cui gli animali sono umanizzati, sarà anche perché vivo con un cane, che è qui con me in questo istante, e non parla. Sono sicuro, però, che pensa, ha dei sentimenti e anche dei modi per esprimerli».
«Giù nella valle» tocca temi cruciali come l’ambiente, il clima, l’abbandono della montagna, la ricerca di un equilibrio tra gli ecosistemi.
«Abito in una montagna che è vicina a Cervinia e non ha alcun problema di spopolamento. Un discorso analogo vale per il Trentino, che nella montagna ha trovato la sua risorsa economica e anche il suo equilibrio. Il problema riguarda il non essere capaci di fermarsi. Gli amministratori dovrebbero pensare di fermarsi qui per trovare un equilibrio duraturo e proteggere quanto rimane intaccato».
Invece?
«Invece anche adesso si continua a far saltare fuori nuovi progetti , ed è una visione che le persone come me trovano vecchia e superata. Quando vado nelle scuole e parlo con i ragazzi cerco di raccontare loro quanto è importante proteggere quel pezzo di montagna che non abbiamo toccato. Spero che le prossime generazioni, quando toccherà a loro amministrare e governare, se ne ricordino».
Lei che non è cresciuto nella Terre Alte, pensa si possa colmare il divario città-montagna?
«Mi sembra di no, lo dico con un po’ di tristezza dopo quindici anni di vita in montagna. Non mi sono mai integrato, forse la via di Elisabetta, che è quella di sposarsi e fare un figlio, potrebbe essere quella che lo permette. La dimensione della solitudine e del tempo vuoto, quando alle cinque di pomeriggio è buio e quindi non puoi più stare fuori, non la imparerò mai. gli inizi di ottobre, quando partono tutti quelli degli alpeggi e chiudono i rifugi, so che anche la mia stagione è finita. In montagna mi godo tanto il bosco, l’acqua che adoro e cerco sempre, l’incontro con gli elementi, l’aria, il cielo. Mi manca però tanto la musica, l’arte, la socialità della città».
Festività
di Margherita Montanari
L'altoatesino del ristorante Flurin di Glorenza porta in tavola la sua idea del pranzo del 25 dicembre. «Si possono cucinare ricette buonissime anche senza usare ingredienti costosi. Un grande classico sono le lasagne»