Storie

martedì 31 Dicembre, 2024

Paolo De Chiesa: «La mia fidanzata mi sparò. Mi salvai per miracolo. A Campiglio la rinascita»

di

L'ex sciatore della Valanga azzurra e commentatore tv: «Mi sentivo morto, smisi di studiare Medicina. Il podio sulla 3Tre mi riportò in vita»
De Chiesa

Lo stile, la competenza, e un amore profondo per lo sci che scende giù, in fondo all’anima. Quando entrò in squadra cinquant’anni fa Paolo De Chiesa era il «bocia» della Valanga Azzurra, poi quando il leggendario squadrone italiano si dissolse, lui era ancora lì a lottare tra i paletti, «l’ultimo Apache» di quella generazione d’oro che segnò un’epoca. Non ha mai vinto una gara di Coppa del Mondo Paolo De Chiesa, e se lo sarebbe meritato, ma dodici podi mica sono bazzecole; lui non si sente un campione – «I campioni son quelli che vincono», è un po’ il suo mantra -, ma un campione lo è stato davvero in una carriera divisa in due e segnata, come la sua vita del resto, da un colpo di pistola partito accidentalmente, cosi almeno vogliamo credere, che poteva portargliela via la vita. È finito in un tunnel, e quando tutto sembrava finito ha trovato la forza di uscirne; in fondo, la sua grande vittoria è stata questa. E in questa storia Madonna di Campiglio è l’intreccio, il punto di partenza delle sue due vite sugli sci.

De Chiesa, ci racconti la «sua» Madonna di Campiglio.
«È il luogo del mio cuore. Lì ho iniziato da bambino quando partecipai al Trofeo Topolino (vincitore nel 1970 Categoria Allievi, ndr) inventato da Rolly Marchi e al Trofeo Corrierino a fine marzo. Da bambino andavo forte e vincevo, ma in quegli anni trovai uno che andava ancora più forte, praticamente imbattibile, che le suonava a tutti: Teo Fabi…».

Teo Fabi, il pilota di Formula Uno?
«Proprio lui. Da ragazzino era fortissimo nello sci, ci dava cinque secondi a tutti. Un fenomeno. Fece il mondiale di sci del 1970 in Val Gardena a 15 anni, correndo per il Brasile ben prima di Pinheiro Braathen quindi, in quanto suo padre aveva le cave di eternit in Brasile. Nello sci bruciò un po’ troppo le tappe e si perse per strada, poi svoltò sui motori e fece carriera in Formula Uno».

Torniamo a Campiglio.
«Era il 1974, ero stato il migliore nei test in gigante a Livigno, in Austria avevo vinto una gara internazionale davanti a Stenmark, venivo da risultati importanti e Mario Cotelli mi fece debuttare il 5 dicembre in Coppa del Mondo con un nono posto nel gigante a Val d’Isère vinto da Piero Gros. La gara successiva fu il 17 dicembre, lo slalom a Campiglio. Una gara molto importante nella storia dello sci perché fu la prima delle 86 vittorie di Ingemar Stenmark in Coppa del Mondo. Arrivai secondo, terzo il mio amico compianto Fausto Radici, indimenticabile. Io e Ingemar abbiamo la stessa età, lui compie gli anni quattro giorni dopo di me, il 18 marzo, e mi manda ancora oggi la foto di quel podio. Ingemar era indietro dopo la prima manche e potevo vincerla io quella gara; fu il nostro allenatore, Oreste Peccedi, a consigliarmi di non rischiare troppo nella seconda, in quanto avevo bisogno di far punti per abbassare il pettorale di partenza. Va bene così, non lo baratto con niente al mondo quel secondo posto: per me è un grande onore essere sul podio con Stenmark nel giorno in cui lui vinse la sua prima gara di Coppa del Mondo».

Andiamo al 9 dicembre 1981…
«Terzo a Madonna di Campiglio. Vinse Phil Mahre, Stenmark secondo. Per me fu come vincere un’Olimpiade, fu la gara che segnò il mio ritorno, la fine del mio calvario iniziato con quel colpo di pistola partito dalla mia fidanzata di allora a una serata a casa di amici. Rimasi ferito, e mi salvai per miracolo, ma la ferita più lacerante ce l’avevo dentro; non c’ero più, ero morto, passai attraverso tanta sofferenza, e ritrovarmi su quel podio fu la mia rinascita. Capisce perché Madonna di Campiglio ce l’ho nel cuore?».

Dove trovò la forza di rialzarsi?
«Non lo so. Ho avuto la fortuna di avere una grande famiglia che mi ha aiutato; non c’era più nulla, avevo perso quindici chili e ho smesso di studiare Medicina all’università; ero precipitato nel baratro, non parlavo più, vedevo solo un lumicino in fondo al tunnel e ho navigato al buio col timone dritto. Ho fatto una scommessa con me stesso, volevo tornare a vivere e a fare sport come ho sempre fatto nella mia vita».

Non aveva mai raccontato la sua vicenda personale pubblicamente; lo ha fatto nel film «La Valanga Azzurra» di Giovanni Veronesi (è stato trasmesso ieri in prima serata su Raitre), perché?
«Giovanni è una persona speciale, molto empatica, e con lui è nata subito un’intesa particolare. La Valanga Azzurra nacque il 7 gennaio del 1974 nel gigante di Berchtesgaden con cinque italiani nei primi cinque posti; ecco, facciamo che per noi Giovanni sia il sesto. Lo hanno anche fatto maestro di sci ad honorem. Gli ho raccontato la mia storia, e lui mi ha chiesto se mi andasse di raccontarla nel film; l’ho fatto perché sentivo che era venuto il momento di farlo, anche perché magari c’è ancora chi crede che la mia vita sia stata dorata; non è così, la mia vita non è stata affatto facile, ho conosciuto la sofferenza, anche se poi ho recuperato e la vita mi ha dato una famiglia e due figli meravigliosi. Spero anche che il racconto di come sono venuto fuori dal dramma possa essere di aiuto e conforto a chi soffre».

Cos’è stata la Valanga Azzurra?
«Una storia meravigliosa, un onore e un privilegio farne parte. Due campioni, Gustavo Thoeni e Piero Gros, e noi da corollario con un comune denominatore: la Valanga Azzurra è stata una lezione di vita che ci ha fatto crescere come persone. Eravamo ragazzi, siam diventati uomini. Coi piedi per terra, senza montarci la testa, abbiamo saputo far tesoro di quella straordinaria esperienza, ed è una cosa molto importante. Il docufilm di Giovanni Veronesi è la chiusura di un cerchio».

Il prossimo 7 gennaio il film sarà proiettato a Madonna di Campiglio con la presenza del suo amico Stenmark: è lui il più grande sciatore di sempre?
«Se parliamo di slalom e gigante, sicuramente sì. La sua grandezza è fuori discussione, ma a mente fredda io dico però che il più grande dell’era moderna è stato Marc Girardelli, uno sciatore polivalente che ha vinto cinque coppe del mondo e sapeva primeggiare in tutte le specialità. Detto che ai tempi di Jean Claude Killy, tre ori in discesa, gigante e slalom ai giochi di Grenoble del 1968, il supergigante non esisteva, nell’era moderna lui e Bode Miller sono gli unici due ad aver vinto in tutte le discipline (discesa, superG, gigante e slalom) nell’arco di una stagione».
Il giorno dopo, la sera dell’8 gennaio, sarà la notte dello slalom sulle 3Tre: non vinciamo dal 2005, Giorgio Rocca; come la vede?
«Dico che bisogna essere realisti e che ci sarebbe già da festeggiare per un piazzamento dei nostri. Speriamo che Vinatzer si ricordi di essere potenzialmente un grande slalomista e che metta in pratica il suo talento».

Non rivedremo Hirscher…
«Un campionissimo, ma il suo ritorno non mi ha certo entusiasmato. Vederlo far così fatica in slalom, è stato mortificante».

Lei continua a non definirsi un campione, eppure lo sport abbonda di personaggi che sono ritenuti dei campioni pur non essendo stati dei vincenti assoluti.
«Ok, dodici podi non sono certo pochi, ne ho fatti otto in tre anni; sciavo bene e il mio stile piaceva alla gente, ma i campioni sono quelli che vincono. Per intenderci, Odermatt è un campione. Stare nella Valanga Azzurra non era facile, pensi che ho saltato l’Olimpiade del 1976 a Innsbruck quando ero il sesto slalomista al mondo e il quinto in Italia, ma i posti in squadra erano solo quattro. Ai Mondiali del 1978 a Garmisch ero fortissimo, ma Mario Cotelli mi lasciò fuori dallo slalom per far posto a Gustavo Thoeni che non andava più. Ai Mondiali del 1982 a Schladming persi il bronzo in slalom per cinque centesimi. Diciamo allora che sono stato un campione nella mia storia privata: ero piombato agli inferi, sono risorto con quel podio a Madonna di Campiglio nel 1981, abbracciato in lacrime al mio amico fraterno Piero Gros. La mia vittoria è stata quella di trovare la forza di uscire da una situazione drammatica».

Cos’è per lei lo sci?
«Un grande amore. Ho gareggiato in Coppa del Mondo per dodici anni e commento le gare in tv da quasi quaranta; ne ho 68, amo andare a sciare e fare una bella curva mi dà ancora una grande emozione».