L'intervista

venerdì 30 Giugno, 2023

Paolo Rossi: «Con Berlusconi è morta una parte di me. Suono per matrimoni, battesimi, separazioni»

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L'attore e regista italiano domenica sarà ospite al «Pergine Festival»
Paolo Rossi

Paolo Rossi Kobau ha compiuto 70 anni giusto il 22 giugno ma lui, dice, non lo sa ancora. Nato a Monfalcone, diploma di perito chimico, vive a Trieste. Ha cominciato a calcare le scene nel 1978 con «Histoire du Soldat», diretto da Dario Fo. Con la compagnia del Teatro dell’Elfo ha portato in scena numerosi lavori firmati da Gabriele Salvatores. Debutto cinematografico nel 1986 con «Via Montenapoleone». Televisione su Rai Tre («Su la testa») e ospite fisso a «Che tempo che fa». Partecipazioni al festival di Sanremo (con Enzo Jannacci nel 1994). L’aver cantato il brano di Rino Gaetano «In Italia si sta male (si sta bene anzichenò)» gli costò l’ostracismo «bulgaro» toccato anche ad altri personaggi della televisione pubblica: Biagi, Santoro e Luttazzi. Non piacevano a Berlusconi e furono allontanati dalla televisione. Poco male, ne guadagnò il teatro.
Paolo Rossi sarà a Pergine, domenica 2 luglio, nell’ambito di «Pergine Festival», edizione numero 48. Spettacolo alle 20.45, al teatro comunale, con «Scorrettissimo me». I direttori artistici della rassegna, i «Babilonia Teatri» dicono che «Paolo Rossi è intelligenza spudorata e ironia sapiente».

Chiediamo direttamente a lui: chi è, che cos’è Paolo Rossi. Come possiamo definirla?
«Io spero che non riescano né a definirmi né a rintracciarmi. Soprattutto alcuni».

E chi vorrebbe rintracciarla?
«Vivendo a cavallo tra due secoli e tra due millenni ho imparato che può succedere sempre qualcosa. Se non voglio essere rintracciato perché dovrei comunicarlo a un giornale? Così, magari, a quello che mi doveva rintracciare gli viene in mente…».

Del suo privato si sa che ha tre figli e che 25 anni fa ha dovuto fare i conti con la malattia. C’è altro che vuol far sapere?
«Ho avuto tre compagne, per lunghi periodi, quindi le chiamerei mogli, anche se ne ho sposata una sola. Ho tre figli, distribuiti democraticamente a ognuna delle tre. Anche perché non potevo lasciare il peso a una sola. Giusto?».

Lei ha compiuto 70 anni una settimana fa e dunque “Auguri”. Chi scrive l’ha preceduta di una manciata di mesi. Tra coetanei, un po’ âgé, ci si intende. Che bilancio fa di una carriera sull’otto volante?
«Nessun bilancio, devo fare dei programmi».

Lei ha condiviso per anni nome e cognome con un grande calciatore. Il Paolo Rossi della Juventus e della Nazionale che vinse i mondiali di Spagna del 1982. Le dava fastidio l’essere coinquilino d’anagrafe?
«Non fu il primo. Quando andavo alle medie, il primo studente che fu ucciso nel corso di una manifestazione si chiamava Paolo Rossi. Sono abituato a trovare degli omonimi. C’è stato un produttore cinematografico, il presidente della Corte Costituzionale…».

Quando ha cominciato a essere solo lei, Paolo Rossi l’attore, il comico?
«Da sempre credo. Vengo da una terra di affabulatori».

Lei è anche scrittore, sceneggiatore, musicista. Ha vinto premi e inanellato esclusioni. Dalla televisione, soprattutto. A chi ha pestato i piedi?
«Ho più lavoro qui dai confini dell’impero, forse perché controllo meglio l’impero, dai confini, come diceva Giulio Cesare. Non ho mai pestato i piedi. Ho dato fastidio. Più che altro ho dato delle pedate nel didietro, termine poeticamente corretto. Le ho date in un modo che ha attirato delle antipatie ma anche delle simpatie».

Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso (Dio, come siamo vecchi signor Rossi)…
«Parla per te perché ricordo che in Cina i settant’anni li considerano come il momento in cui si comincia ad essere al top. L’unica cosa che non faccio più, e che mi dispiace, è giocare al pallone».

Tornando agli anni Novanta, lei ha fatto ricorso ai classici greci per parlare della tirannia e alla Costituzione italiana per una «Adunata popolare di delirio organizzato». Anche quei testi davano fastidio?
«Mah, oggi il teatro è il luogo meno adatto per fare teatro. Probabilmente perché parlo di dosi. La dose dell’intervento dello Stato è eccessiva. Lo Stato non ha niente a che fare coi teatranti. Gente che dice pubblicamente di amare il teatro ma odia il pubblico. Sarà un attimo perché questo tipo di teatro diventi una forma illegale di intrattenimento. E questo darà molto più fastidio di un monologo su Pericle. Per noi teatranti lo spettacolo continua».

Anche nella vita.
«Sì, perché viviamo nella società dello spettacolo».

Dopo aver rielaborato il celebre discorso di Pericle sulla democrazia ad Atene, a Rai Uno (2003) le fu proibito di pronunciarlo.
«Questo spiega la mediocrità di alcune persone della Rai perché ne ho conosciute anche di illuminate (Angelo Guglielmi, per esempio). Scambiarono Tucidide per un cabarettista emergente».

La stessa cosa accadde con Rai Due per un testo sul teatro di Molière, metafora del potere politico.
«Ma quello fu la Buon’anima che mi interdì dalla Rai».

Dopo la prima parte, la seconda non andò mai in onda.
«Non ho mai fatto la vittima per la censura. Sapevo che dopo questi fatti c’era la fila in teatro».

Si disse che aveva intercalato il testo con qualche parolaccia. Ma allora, più che un divo lei è un recidivo?
«Ci fu una causa che ho stravinto. Travaglio la spiega benissimo in una trasmissione di quel periodo. Si trova in rete sul web. In realtà dicevo molte meno parolacce che in altri programmi».

Che cosa racconta in «Scorrettissimo me» che porterà in scena a Pergine, domenica?
«È uno spettacolo che ha subito delle metamorfosi e che facciamo dal tempo del lockdown dove io ho lavorato. Ho rispettato la legge ma è sempre stato borderline. Siamo andati a far teatro nei cortili, con tutte le distanze di sicurezza…».

Consequenziale con la sua idea che il teatro deve uscire dal teatro.
«Io e i “Virtuosi del Carso”, i musicisti che mi accompagnano, facciamo una promozione. Perché, dopo l’esibizione, siamo disponibili per matrimoni, per battesimi, funerali, divorzi, circoncisioni… Qualsiasi tipo di evento».

Una provocazione?
«No no, lo stiamo facendo. Non solo stiamo riempiendo i teatri d’Italia ma ci stanno chiamando da più parti. Oggi il pubblico ha bisogno di un sano intrattenimento. Se vuole sopravvivere, il teatro deve mischiarsi con altre forme di rito collettivo».

Le manca Berlusconi?
«Il funerale è stato uno show, certamente. Siamo la società dello spettacolo, ma ho molto rispetto per il protagonista di questa vicenda. Che non è Berlusconi, mi dispiace per lui, ma è la morte. E ci riguarda tutti. Rispetto il lutto anche dei parenti, di coloro che gli hanno creduto. Dopodiché il lutto finirà e allora si potrà riaprire un discorso più profondo su quello che ha combinato o fatto. A me della sua condotta morale non ha mai interessato più di tanto. Non ho mai fatto battute sulle due debolezze. Credo che abbia delle responsabilità sul degrado culturale di questo Paese».

Ma non è il momento per parlarne, lei dice. È così?
«Se voglio essere onesto debbo dire che, morto Berlusconi, è morta una parte anche di me. Perché ha fatto parte di un periodo della mia vita nel quale, quanto meno, l’avversario era visibile».