L'intervista
domenica 2 Marzo, 2025
Pedrotti, il primario che sfidò il Covid in Trentino: «La paura più grande? Scegliere chi curare. Vidi tanti ragazzi in rianimazione»
di Davide Orsato
A cinque anni dal primo caso «autoctono», parla il direttore della terapia intensiva di Rovereto: «Il vaccino è stata l'arma vincente, ma ancora oggi la gente ne ha paura»
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Erano da poco passate le 18 di lunedì 2 marzo 2020 quando la Provincia dà l’annuncio ufficiale. C’è il primo caso di Covid, «autoctono». È una signora di 83 anni di Villazzano. Era arrivata in ospedale il giorno prima, con i sintomi temuti: febbre e difficoltà respiratoria. È il fatto che segna l’inizio della pandemia in Trentino. Prima c’erano stati solo casi tra turisti, «gli sciatori lombardi», si diceva, nella convinzione che il virus Sars Cov2 fosse «roba loro». E allora scattava il tracciamento, il contenimento. Ma l’anziana trentina non aveva visto nessun sciatore. Si era ammalata e basta. Da lì a poche ore sarebbe successo altre decine di migliaia di volte. Le vittime, finché sono state contate, sono state 1.649, se ancora il numero a senso, dopo l’estenuante polemica del «per Covid e con Covid?».
A cinque anni di distanza, la voglia di parlarne sembra essere poca. Rimozione? O, meglio, elaborazione collettiva del trauma, dato che la ferita (l’emergenza si è conclusa solo a fine 2022) è ancora recente? Di certo non ha dimenticato nulla uno dei protagonisti trentini dell’emergenza sanitaria, il dottor Giovanni Pedrotti Direttore presso Unità operativa anestesia e rianimazione – Rovereto, assieme al Santa Chiara, l’ospedale che si attrezzò per ospitare i pazienti Covid.
Dottor Pedrotti, ha rimosso anche lei il Covid, o vorrebbe farlo?
«Macché rimosso, mi ricordo tutto dell’emergenza e credo continuerò a farlo anche per il resto della mia vita».
Che esperienza è stata? Un aggettivo per definirla…
«Unica. È stato unico quello che è successo e unica la risposta che siamo riusciti a dare, senza voler peccare di presunzione. Forse, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, le persone non si rendono ancora conto di cosa si è significato per la sanità pubblica: gli ospedali, compreso quello dove lavoro sono stati completamente ridisegnati, un cambiamento che continuerà a rimanere».
Da medico si aspettava di poter un giorno affrontare qualcosa di simile?
«Un po’ sì. Avevamo avuto le avvisaglie, Sars e aviaria. Anche quelle malattie avrebbero potuto evolvere in pandemie, ma abbiamo avuto fortuna. Con il Covid non è andata così».
Quando avete capito che era qualcosa di diverso?
«Al netto di quanto è stato visto e da quanto ci hanno raccontato i colleghi degli altri ospedali, lo shock vero e proprio è stato quando abbiamo visti arrivare i giovani in terapia intensiva. Era qualcosa di totalmente avulso dalla mia esperienza di medico: in terapia intensiva per le malattie respiratorie arrivavano solo gli anziani. A un certo punto sono arrivati da noi due gemelli di 16 anni, eravamo sconvolti. Fortunatamente, sono sopravvissuti».
C’è stato un momento in cui vi siete sentiti in preda allo sconforto?
«Ottobre 2020, quando abbiamo visto che la pandemia ripartiva con numeri ancora più alti. È stato senza dubbio un momento difficile. All’inizio non sentivamo più di tanto lo sforzo, eravamo tesi, ma carichi come quando occorre affrontare una gara sportiva: cercavamo di dare il massimo perché vedevamo che la gente aveva bisogno di noi. Vedere che tutto ricominciava da capo è stato un duro colpo».
La paura più grande?
Quella di dover scegliere chi curare, di fare la medicina da trincea. Ce l’avevamo tutti, fortunatamente non è successo. C’era un paziente che, una volta dimesso, mi ha confidato di vivere con terrore il momento in cui la mattina facevo il giro del reparto. Pensava che indicassi le persone a cui staccare l’ossigeno. Non era così, ma era un pensiero reale».
C’è un paziente, una paziente che ricorda?
«La professoressa Grazia Maria Schirinà ha scritto un libro “Sul Filo” ispirato ai sogni che faceva mentre era ricoverata, sedata. È un documento interessante, anche perché spiega lo sforzo che, come anestesisti e terapisti del dolore facciamo per rendere il sonno più naturale possibile anche nei pazienti in condizioni gravi».
Da quello che ha visto nella sua trincea, quanto ha aiutato il vaccino?
«È stato fondamentale: da quel momento non abbiamo più avuto giovani in terapia intensiva. E tanti di quelli che arrivavano non erano vaccinati».
Non è scontato. O, almeno, non tutti sono d’accordo.
«Lo so. Dopo la pandemia c’è stato un paziente che prima di un intervento mi ha detto che non voleva trasfusioni. Pensavo fosse un testimone di Geova, invece aveva solo paura di mettere in circolo “proteina spike”, quella che aveva evitato con il vaccino».
Ultima domanda: se accadesse di nuovo?
«Siamo più pronti. Speriamo di esserlo anche ai sacrifici personali. Per quanto mi riguarda posso dire che, durante la pandemia, venivo al lavoro alle sette, tornavo alle dieci di sera. Mi facevo la doccia e andavo a letto. Lo rifarei? Sì, lo rifarei».
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