L'INTERVISTA
domenica 21 Gennaio, 2024
di Simone Casalini
«Vent’anni fa un gruppo di sopravvissuti mi ha affidato Auschwitz. L’ho preso e portato sulle mie spalle. Nel tempo è diventato progressivamente più difficile perché il campo è entrato a far parte della mia identità, dei miei pensieri, del mio spirito, della mia anima. Ma ho il privilegio di sapere perché mi sveglio e ho una forte dimensione di senso». La barba folta, il fisico solenne, le mani che giocano a nascondino nelle tasche. Piotr Cywinski, custode della memoria e del presente di Auschwitz, lega concetti e immagini seduto nella saletta di un albergo di Trento, spiegando la particolare angolazione da cui ha voluto provare a raccontare l’esperienza del campo di sterminio. E quindi quell’indicibile che il sovrapporsi di memorie e frammenti di racconto consentono di penetrare. Nel suo libro «Auschwitz, a Monograph of the Human» il direttore del museo di Auschwitz-Birkenau – che domani sarà protagonista al «Living Memory» (ore 11, Sala Filarmonica a Trento) insieme al rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian – ha lasciato indietro dati, fatti, circostanze per sondare le emozioni umane, i sentimenti. L’esito finale è un mosaico frastagliato di 32 voci-capitoli che restituiscono la vita e la sua negazione nel campo attraverso la percezione dei prigionieri e delle prigioniere.
Direttore Cywinski, nel suo libro lei ha riletto l’esperienza di Auschwitz seguendo la scia delle emozioni umane. Come si è generata la sua ricerca?
«Leggendo la storiografia su Auschwitz ho avuto la sensazione che ci sia stata una grande attenzione ai fatti, alla cronologia, ai numeri ma che sia stato tralasciato l’aspetto dell’esperienza umana. Se Auschwitz deve essere compreso, se vuole avvisarci di qualcosa a vantaggio delle future generazioni si deve partire dall’esperienza umana dei prigionieri e delle prigioniere, dall’esperienza limite che hanno vissuto, dal processo di deumanizzazione che hanno subito. Le generazioni trascorse di storici hanno lavorato sulla cronologia, sui fatti per stabilire la verità e per contrapporsi al negazionismo. Ora siamo nel punto della Storia in cui stanno scomparendo gli ultimi sopravvissuti e dobbiamo quindi partire da un punto di vista più personale».
Come ha costruito il suo percorso?
«La mia ricerca è durata 5 anni. Leggevo tutti i giorni testi diversi: libri (250 in tutto), qualche migliaio di relazioni, le memorie di oltre 450 sopravvissuti, testi d’archivio. Per 5 anni ho solo letto, senza scrivere. Mi sono annotato citazioni, sentimenti, sensazioni, le ho catalogate: cercavo nelle loro parole la dimensione antropologica, emotiva e spirituale».
Nel capitolo sulla «morte» ricorda all’inizio che avrebbe voluto collocare questa parola in fondo, così come avviene nel normale svolgimento di una vita. Ma l’ha anticipata perché «la morte regnava nel campo». Ci può spiegare?
«La mia prima intenzione nasceva da una visione stereotipata: ho capito che era la posizione di una persona fuori dal campo. La morte è la prima cosa che un prigioniero poteva cogliere: già dai treni dove in tanti perivano per fame, caldo, schiacciati o per malattia o fucilati. Quando scendevano dai convogli una parte di loro veniva subito uccisa. In ogni momento della vita nel campo potevi morire: bastava cadere, non poter lavorare, ammalarsi. Moribondi e cadaveri accompagnavano la giornata visivamente. Quindi lasciare la morte in fondo al libro avrebbe portato a deformare la descrizione del campo perché Auschwitz era il campo della morte, la vita nel campo era in prospettiva della morte».
Il capitolo sulla «fame» si apre con una citazione di Primo Levi dal libro «Se questo è un uomo». «Il lager è fame: noi stessi siamo fame, fame vivente». Cosa rappresentava la fame ad Auschwitz?
«Fame, paura e umiliazione erano le tre condizioni che accompagnavano le persone nel campo. I prigionieri svolgevano lavori che richiedevano 4-5mila calorie. Ne ricevevano 1700 secondo l’organizzazione, in realtà anche di meno, 1300. Dopo pochi giorni, i pensieri cominciavano a ruotare intorno alla fame, alla privazione. Le energie si riducevano. I pensieri diventano ossessivi. Il corpo si autoconsumava. Ci sono stati casi estremi di cannibalismo. La fame è descritta da tutti i sopravvissuti e da tutti i detenuti: non c’è una relazione, un testo, una memoria che non ne parli. I più deboli, scheletrici, venivano chiamati “musulmani”».
La fame in molteplici situazioni ha posto in discussione anche l’«amicizia», un altro sentimento che lei affronta. L’amicizia era una relazione possibile?
«L’amicizia aveva volti e sfumature differenti ed era la necessità di rispondere insieme ai pericoli. L’amicizia era anche un sacrificio che poteva condurre al suicidio. Nel campo maschile aveva una dimensione allargata, multidimensionale; in quello femminile avveniva per gruppi ristretti di 3-4 prigioniere che chiamavano “famiglia”. Anche l’amicizia nel campo era diversa da quella normale. Un amico poteva essere un aiuto psicologico che scoraggiava dal compiere il suicidio. Con lui si poteva parlare di chi corrompere. L’unica cosa che un amico non poteva chiedere era un morso di pane, sarebbe stato troppo».
Ad Auschwitz nascevano anche bambini, figli di donne incinta che arrivavano al campo o di donne che rimanevano incinta nel campo. Prigioniere che partorivano nuove/i prigioniere/i. Qual era il loro destino?
«Nelle relazioni si parla poco dei bambini nati nel campo. Raramente si vedevano neonati, forse perché era un trauma troppo grande: era una nascita per morire e non per vivere. Le prigioniere avevano status diversi e a ciò si legava il destino del neonato. Quando la madre era ebrea aveva due possibilità: uccidere il figlio o la figlia con l’aiuto delle amiche della baracca oppure andare direttamente alla camera a gas con il neonato. Invece se la madre era ariana, secondo la classificazione nazista, il bambino riceveva un numero. Ma non ci sono sopravvissuti nemmeno in questo caso. Mancava tutto nel campo: igiene, pannolini, cibo. E le madri erano troppo deboli per allattare. Gli unici scampati sono quelli nati tra il tardo autunno e l’inverno del 1944: le madri sono riuscite a nascondersi nel campo e a non essere reclutate per la marcia della morte. Questi sopravvissuti vivono una condizione particolare: non possono raccontare il campo perché non ricordano nulla, ma nello stesso tempo lo hanno sempre dietro, un’esperienza di cui non ci si libera».
Un capitolo è dedicato ad «amore e sesso»: lei annota che pochissimo è stato scritto sul tema nei libri, soprattutto di storia. Di più se ne parla nelle memorie.
«L’amore esisteva. Teniamo presente che i detenuti avevano tra i 14-15 anni e i 40 anni. La vita di questa fascia di età non si può immaginare senza amore. Le relazioni sessuali erano difficili perché i campi maschile e femminile erano separati. C’era qualcuno che per le sue competenze professionali poteva però spostarsi. Fioriva l’amore omosessuale: emozioni e sentimenti nati sul posto. Non c’è reticenza nel racconto dei sopravvissuti. Certo, poi c’erano differenze legate a culture e religioni. C’erano prigionieri e prigioniere che perdevano completamente la morale».
Si sono formate coppie che sono proseguite dopo la fine della guerra?
«È difficile dirlo, non le ho seguite tutte. Spesso si conservava l’amore ma non seguiva qualcosa di stabile come una relazione o un matrimonio. Tutti coloro che hanno avuto un amore lo ricordano come un bene in uno spazio dove non c’era posto per il bene».
Ad Auschwitz crescono i visitatori: com’è cambiata la consapevolezza e come la fruizione in un tempo di turismo massificato?
«Non osservo differenze tra oggi e il passato. La metà dei visitatori arriva attraverso le scuole o le istituzioni. In estate c’è più turismo, spesso viaggiatori che vengono in Europa e scelgono di fare una tappa ad Auschwitz perché è, a loro avviso, importante. Le ore che si fermano sono quelle in cui si pongono domande difficili, anche rispetto alla propria vita. Auschwitz, non solo il luogo ma la storia, sollecita un’inquietudine morale. Questo è quello che mi sta a cuore».
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