La testimonianza
venerdì 11 Novembre, 2022
di Benedetta Centin
La notizia del suicidio di uno di loro, che avrebbe dovuto essere già libero, quel 22 dicembre 2018, nel carcere di Spini di Gardolo, era stata vissuta dalle centinaia di detenuti come la punta dell’iceberg di una situazione che, dal di dentro, già dallo spazio di una cella da condividere con più persone del previsto, era mal sopportata. Nessun pretesto di creare disordini ingiustificati ma un malessere diffuso che è sfociato in una sommossa. Quella che sarà al centro di un processo che per poco più di quaranta si aprirà davanti al tribunale collegiale di Trento la prossima estate. E sono solo metà degli imputati. Un episodio, la rivolta, che i difensori hanno chiesto a gran voce di contestualizzare, tenendo conto appunto del grave stato di sofferenza e disperazione dei detenuti tra i quali si erano già contati sei suicidi in sei anni.
A raccontare di quel giorno, dell’esasperazione che si è fatta violenza, è ora uno di loro che, come si capirà, ha chiesto il massimo anonimato.
Cos’è successo quel giorno?
«Dalle 5 di mattina aveva iniziato a diffondersi la notizia del suicidio di un detenuto, Sabri, un tunisino di 32 anni, che si era tolto la vita. Prima le urla del compagno di cella, poi il passaparola nell’ala e la rabbia per quanto successo: quello, per ciascuno di noi, era un vicino di casa perché il carcere è come un piccolo paese».
Non c’erano state avvisaglie di questa tragedia?
«Sabri continuava a dire che doveva già essere fuori di lì, ma il magistrato ancora non aveva autorizzato la sua scarcerazione. E lui non vedeva l’ora di essere rimesso in libertà: aveva moglie e figli a casa. Il giorno prima aveva detto ad altri detenuti frasi allora inspiegabili e si era lavato, tagliato barba e capelli: una preparazione perché il suicidio non fosse un’onta come viene visto nella loro cultura».
Cosa è accaduto all’arrivo degli agenti?
«Quando uno dei secondini ha aperto lo spioncino della cella il compagno della vittima gli ha tirato un pugno in piena faccia. Il corpo di Sabri era stato lasciato appeso per circa due ore, da quello che ne so. E in seguito è stato lasciato a lungo nudo sul pavimento, impedendo, secondo la sua religione, il trapasso dell’aldilà».
Come si è arrivati alla sommossa?
«All’apertura, alle 8.30, la notizia si è sparsa ulteriormente anche tra gli altri detenuti connazionali di Sabri, erano oltre una trentina. Se un uomo decide di suicidarsi è un fatto grave. Già la situazione in carcere allora era molto delicata su molti versanti. E siamo esplosi. Non c’è stata alcuna organizzazione».
Che è successo?
«È scattata la richiesta di poter parlare con un magistrato in presenza, ma gli agenti di polizia penitenziaria non ascoltavano, non davano retta. E la richiesta allora è diventata ancora più pressante e i più hanno iniziato ad urlare “Mandateci un magistrato o cade il carcere”, con gli operatori che rispondevano “forza, vediamo se avete il coraggio”».
Perché l’esigenza di parlare con un magistrato?
«C’erano diverse richieste di permessi, di arresti domiciliari e altre misure rimaste inevase, a cui non era stata risposta. Volevamo parlarne direttamente con il magistrato. Ma c’era molto altro che non andava, dalla qualità del cibo al lavoro pagato cento euro al mese, alle attività di recupero del detenuto che non erano affatto come poteva sembrare sulla carta, alla palestra della capienza di poche persone, senza permettere a tutti noi uno sfogo. Poi c’era il problema del sovraffollamento e, aspetto tutt’altro che secondario, per la visita con un medico, un dentista o un oculista si doveva aspettare mesi e intanto ti curavi con un Brufen, con un analgesico e antinfiammatorio pur, ad esempio, con la mandibola gonfia per un ascesso ai denti».
Dalle parole poi siete passati ai fatti?
«Sì, abbiamo iniziato a battere sulle sbarre, ad urlare. Pure io sì, e l’ho fatto per spirito di adattamento, lì sarei dovuto rimanere ristretto a lungo».
La situazione è degenerata con poco.
«Abbiamo iniziato a lanciare piatti, bicchieri, posate, mangiare e nostra spesa verso i secondini, sul corridoio della sezione. E così è stato ad ogni piano».
Poi vi siete accaniti sui cancelli?
«Sì, i più sono scappati giù e hanno sigillato con dei materassi i cancelli della sezione usando delle fasce recuperate dalle lenzuola, come delle corde. Quindi hanno dato fuoco ai cancelli».
Come siete arrivati a mescolarvi tra detenuti di diverse sezioni?
«Quasi di certo per un errore hanno aperto i cancelli blindati in simultanea nei tre piani, cosa che non dovrebbe accadere in una struttura di massima sicurezza, e così ci siamo ritrovati in 130 liberi per il carcere per quattro, cinque ore. E la nostra intenzione non era quella di evadere».
E avete fatto danni..
«Sì anche se avremmo potuto fare un autentico disastro in quella situazione. C’è chi ha staccato le telecamere nel braccio e le plafoniere; chi, sceso al piano terra, ha spaccato i sanitari e usato gli idranti per gettare acqua all’esterno, dove c’erano le forze dell’ordine, allagando anche il piano. E ancora chi ha dato fuoco al reparto lavanderia e ha devastato calcetti, banchi, giochi riservati a noi. Ma le celle no, non le abbiamo toccate».
E perché risparmiare le celle?
«Volevamo rimanere nel carcere distrutto in segno di protesta. L’intento era quello di mandare un messaggio alle istituzioni: si doveva scavare sulla situazione in carcere».
E oggi com’è in carcere?
«Un po’ di cose sono cambiate ma c’è ancora da fare. In prima istanza è urgente cambiare il sistema sanitario, che non funziona affatto. Ripartiamo intanto da lì».