Il libro

lunedì 21 Agosto, 2023

Quei tre minuti di sangue in via Fani raccontati dallo scrittore Andrea Pomella

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Lo scrittore presenterà «Il dio disarmato» sabato prossimo a Levico insieme a Gabriele Di Luca: «Del caso Moro, mi soffermo su quegli istanti»

Quello che per gli americani è stato e continua a essere l’omicidio Kennedy, è rappresentato in Italia dal sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Mentre però su Lee Harvey Oswald, la collinetta erbosa e quant’altro si è esercitata costantemente la migliore letteratura statunitense (Norman Mailer, James Ellroy e Don De Lillo per citare solo i più noti), la «nostra» tragedia del 16 marzo 1978 in via Fani non ha ancora trovato un autore in grado di uscire dal recinto bipolare verità giudiziaria/verità storica, per affrontarla con sguardo laterale, ma soprattutto con la profondità del narratore.
Lo ha fatto Andrea Pomella con «Il dio disarmato», che presenterà sabato prossimo a Levico Terme, alle 18 al Parco delle Terme (installazione sequoia) assieme allo scrittore bolzanino Gabriele Di Luca, per il ciclo di incontri organizzato da Biblioteca Comunale e dalla Piccola Libreria. Pubblicato lo scorso anno da Einaudi, è un romanzo particolarissimo che, sull’esempio del Javier Cercas di «Anatomia di un istante» — centrato sul tentato golpe Tejero in Spagna del 1981, ripreso in diretta dalle telecamere in parlamento — viviseziona quei tre minuti di fuoco e sangue in maniera del tutto originale: riavvolge infatti, lasciandoli poi scorrere uno dietro l’altro, i personalissimi nastri delle vite dei protagonisti nelle ore precedenti il sequestro. E quindi ovviamente l’illustre rapito, i suoi familiari, le vittime della scorta, i terroristi, ma leggendo scoprirete quanti altri e numerosi possono essere i punti di vista, a comporre un intreccio potenzialmente infinito: compreso quello dello stesso Pomella, che più volte si reca in via Fani. Il tutto nella convinzione, impossibile da contraddire, che un fatto storico è anche un fatto letterario. E che come tale va indagato e restituito.
Pomella, perché affrontare la tragedia di via Fani dal punto di vista letterario?
«Quanto avvenne quella mattina è sempre stata per me un’ossessione: avevo cinque anni, tra l’altro oggi abito non distante da via Fani. E mi ha sempre colpito come, di fronte a una quantità sterminata di saggi, spesso di tono complottista, vi sia così poco in termini di letteratura, se non nell’ambito di narrazioni più ampie. Si tratta invece di un caso assolutamente interessante in questa prospettiva. Il caso giudiziario lo conosciamo, l’aspetto storico è di pertinenza degli studiosi. Ma credo che una verità ulteriore, percettiva, possa venire solo con gli strumenti della letteratura».
«L’affaire Moro» di Sciascia può essere considerato l’unico tentativo del genere?
«Fino a un certo punto. Era un instant book, uscì pochi mesi dopo i fatti come reazione immediata di un grande intellettuale. Poi però non vi fu più nulla. Ed è strano, se si considera come la Seconda guerra mondiale e la lotta partigiana costituirono bando di prova per la letteratura italiana, che mostrò una enorme e immediata capacità di elaborazione di quel trauma».
Eppure gli anni Settanta sono da tempo un terreno privilegiato dagli autori italiani.
«È vero, sono stati molto indagati. Non però il caso Moro, e lo trovo sconcertante: fu un regicidio, quindi con una portata narrativa gigantesca. Con “Il dio disarmato” mi occupo solo di quei tre minuti in via Fani, ma l’intera vicenda giustificherebbe una saga in termini shakespeariani, per le conseguenze che ha portato nella vita italiana».
Il suo libro rivela una documentazione notevolissima. Come si è districato tra atti giudiziari e le centinaia di volumi, molti dei quali di memorialistica da parte dei brigatisti?
«In generale, sulle “costruzioni” di verità non mi pronuncio, perché quando uno dei protagonisti o testimoni decide di raccontare la propria si aprono regolarmente voragini. Però ho fatto molto affidamento sulle impressioni del momento: ad esempio, quando Adriana Faranda racconta di Valerio Morucci che le dice “è stato un macello ma siamo tutti salvi”. Sulle ricostruzioni più ampie, invece, alzo le mani. La mole di materiale che esiste potrebbe tra l’altro sembrare un vantaggio, per un narratore. E invece è il contrario: è come attraversare un’immensa foresta pluviale, dove depistaggi, imprecisioni e travisamenti sono ovunque in agguato».
C’è un detto tra i magistrati, secondo cui non esiste testimone più inattendibile di quello oculare. Un detto scherzoso ma non troppo.
«La memoria è uno strumento magnifico, ma per come funziona sappiamo anche che si tratta di uno strumento fallace. E poi: se anche arrivasse qualcuno con la verità, oggi verrebbe notato dopo decenni in cui ne sono state dette tante? Si perderebbe in quel mare di parole che avvolge il caso Moro».
Esistono ancora verità nascoste sul caso Moro?
«La saggistica dietrologica ha occupato continuativamente da anni tutto lo spazio disponibile. E mi sono reso conto che è difficile oggi dire qualcosa di nuovo. Però credo che per parlare di un fatto del genere si debba sgombrare il campo da ogni condizionamento strutturale, mettendo da parte la propria formazione, culturale e ideologica».
Quanto è difficile, oggi, comprendere davvero lo spirito di quegli anni brutali?
«Proprio a questo mi riferivo. I brigatisti hanno giustificato il massacro della scorta con il fatto che si trattava di uomini in divisa, quindi nemici da combattere. Ma se spogliamo quegli uomini delle loro divise, e i terroristi delle ragioni che li hanno mossi verso la lotta armata e la clandestinità, arriviamo al punto centrale: all’uomo contro l’uomo. E quindi alla verità dei fatti. Ci si deve spogliare del proprio pensiero e della propria storia per indagare la verità umana».
È un po’ quello che ha fatto Marco Bellocchio, più in «Buongiorno, notte» che nella recente serie tv.
«Sì, però seguendo un unico punto di vista, quindi parziale: quello della brigatista Braghetti e del suo libro. Un primo passo nella deideologizzazione, certo. Ma pensiamo ai tanti romanzi sulle trincee della Grande guerra, uomini che si ammazzano l’uno con l’altro raccontati senza più fare riferimento alla ragione primigenia: ecco, con Moro non è stato ancora fatto».
Quali feedback ha avuto dai lettori in questi mesi?
«Ho incontrato tantissima gente che mi ha raccontato di essere stata quel giorno in via Fani. A prescindere dal fatto che sia vero o meno, questo rivela quanto la vicenda ha colpito le vite di chiunque: tutti ricordano dove erano e cosa stavano facendo quel giorno quando appresero la notizia. Appena uscito il libro, ricevetti un messaggio di un lettore, che aveva lavorato alla Digos di Milano. Mi raccontò che, dopo via Fani, a tutti i nuovi agenti venivano chiesti i nomi dei morti di via Fani. E nessuno li ricordava. “Se non li ricordavamo noi agenti, figurarsi tutti gli altri”, mi scrisse. Ecco perché, presentando il libro, li nomino sempre tutti: Leonardi, Ricci, Iozzino, Zizzi, Rivera».