Letture
sabato 21 Gennaio, 2023
di Carlo Martinelli
Dalle nostre parti se ne è scritto, ma non abbastanza. Ha venduto, ma con cifre assai lontane da quelle dell’edizione originale, uscita in Francia nel 2019. Un successo straordinario, quello di À la ligne in terra transalpina: centomila copie vendute, cinque premi vinti, tradotto in più di dieci Paesi. Italia compresa, una manciata di mesi fa, quando Bompiani ha pubblicato Alla linea di Joseph Ponthus, sottotitolo Fogli di fabbrica (250 pagine, 17 euro, traduzione, mai come in questo caso importante, di Ileana Zagaglia).
Un romanzo? Non propriamente. Un romanzo – poesia in versi liberi, per descrivere, poeticamente cosa voglia dire lavorare in un mattatoio. Romanzo – poesia di assoluta verità, perché racconto in prima persona (memoir per chi ama le etichette) della vita vera dell’autore, operaio interinale nella Bretagna operaia e industriale.
E se è duro il romanzo – poesia («E ho sentito che il mattatoio paga bene / Vedremo / E poi ci si abitua / Tutto qua/ E voglio credere che la mia guerra è bella / Un ammezzato sotto il macello / A pulire merda e mammelle») è duro aggiungere che del successo editoriale (semmai gli fosse importato, e c’è da dubitarne) l’operaio scrittore Joseph ha potuto ben poco gioire. Era nato nel 1978 ed è morto nel 2021. Non era il suo vero nome: aveva scelto Joseph come omaggio a san Giuseppe, patrono dei lavoratori mentre Ponthus voleva essere riferimento ad un poeta cinquecentesco, un certo Pontus de Tyard. Lui, in realtà, si chiamava Baptiste Cornet: grazie a una borsa di studio si era laureato in una università francese d’élite, destinazione lavoro nei quadri alti delle classi dirigenti. Ma niente carriera per Joseph: da buon anarchico, era andato nelle banlieue a fare educazione popolare. Poi aveva smesso di insegnare e si era trasferito in Bretagna. Non trovando un posto di lavoro nell’insegnamento, aveva cominciato a lavorare come operaio nell’industria agroalimentare e nei mattatoi.
Dopo la pubblicazione di Alla linea – la catena di produzione, la catena di montaggio – i media francesi si sono occupati di lui. C’è il video di un’intervista televisiva: un uomo alto, sorriso aperto, capelli ribelli, barba rossa, maglietta da marinaio, una voce timida. Gli chiedono perché fosse finito a lavorare in fabbrica. «Per amore, per seguire la mia compagna Krystel, in Bretagna». Come scrive nel libro: «Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica è per i soldi / Un lavoro per campare».
Ponthus giorno dopo giorno elenca con precisione i gesti del lavoro alla catena di montaggio, il fragore, la stanchezza immensa, i sogni inghiottiti dalla ripetizione di riti sfinenti, la sofferenza del corpo e l’annullamento dell’anima. Lo salva una vita parallela, interiore, animata dai grandi autori latini, dalle canzoni di Trenet, dai romanzi di Dumas. È la sua vittoria precaria sull’alienazione del lavoro ripetitivo, una vittoria nutrita anche dalla gioia delle domeniche, dall’affetto per un cane, dall’amore per una donna, dall’odore del mare. Il ritmo della fabbrica è la colonna sonora di questo poema del contemporaneo, tra frutti di mare da spalare e le carcasse dei manzi, «Il rosso del sangue / Il bianco dei nervi».
Un contributo deciso a farlo conoscere in Italia – tristemente, post mortem – lo ha dato Alberto Prunetti, anch’egli scrittore. Quando Ponthus è morto, improvvisamente, il 23 febbraio di due anni fa, scrisse così: «Eri il migliore degli scrittori working-class e ti ricorderò sempre mentre mi sorreggevi per le strade notturne di Bordeaux, cantando Piero Ciampi. Non è giusto, ti prometto che quel capolavoro del tuo libro lo farò pubblicare in Italia, in un modo o in un altro. Spero che gli operai della fabbrica bretone dove avevi lavorato berranno alla tua memoria, come farò io».
Alberto Prunetti cura la collana di letteratura working class per Alegre edizioni, tra i suoi libri Amianto, una storia operaia e Nel girone dei bestemmiatori, ha appena scritto, per minimum fax, un corposo saggio Non è un pranzo di gala (240 pagine, 15 euro), un‘indagine proprio sulla letteratura working class. Descrive, con precisi riferimenti bibliografici, quella letteratura che racconta il mondo del lavoro dall’interno, fatta da scrittrici e scrittori di estrazione proletaria o appartenenti alla nuova classe lavoratrice precaria. Una letteratura che può avere forme, lingue, strutture e scopi diversi da quelli perpetuati nelle scuole di scrittura creativa. Fatta di fabbriche, cucine di ristoranti, consegne a domicilio, call center, precariato, lavori nei campi sottopagati. Con uno stile che non fa sconti, una scrittura antagonista per principio, Prunetti ci ricorda che i libri che riempiono i nostri scaffali sono scritti, scelti e pubblicati da un pezzo piccolissimo di mondo: è ora di fare spazio anche a tutto il resto. E nel resto c’è, al primo posto, Joseph Ponthus. Si racconta che Daniel Pennac, fermato dall’ennesimo ammiratore per strada, se ne liberasse sventolando una copia di À la ligne e dicendo: «Macché, io son vecchio, dovete leggere Ponthus!».
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