domenica 31 Marzo, 2024

Regolamento al femminile dell’ateneo, Vera Gheno: «Bella provocazione. Donna “assessore”? Poco attenta a scuola»

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La nota linguista: «Il maschile scelta ideologica. E non è l’uso dei femminili nelle professioni che cambia la realtà delle cose o risolve i problemi di sessismo»

Vera Gheno è sociolinguista, traduttrice e divulgatrice, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca. È ricercatrice per l’Università di Firenze. Si occupa di comunicazione, questioni di genere, diversità, equità e inclusione. Il suo ultimo libro «Grammamanti, immaginare futuri con le parole» (Einaudi), esce tra due giorni.
Un altro suo libro molto fortunato, edito nel 2019, s’intitola «Femminili singolari, il femminismo è nelle parole» (Effequ, 2019). Quindi cosa ne pensa della decisione dell’Università di Trento di redigere il regolamento interno usando il femminile sovraesteso? Per questa volta, rettore diventa rettrice, e così via.
«È una bella provocazione, ne abbraccio il senso…».
Non sembra entusiasta.
«Ma no, non è così. Solo che è del 1986 “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini e credevo che avessimo già superato lo stadio delle provocazioni. Insomma, le provocazioni si fanno all’inizio di un percorso, ora l’uso di un linguaggio più inclusivo dovrebbe essere un’abitudine».
La provocazione ha però avuto effetto. Il rettore ha ammesso che leggendo il regolamento si è sentito escluso, come si sente ogni volta la componente femminile della comunità accademica quando viene usato il maschile sovraesteso.
«Molto spesso quando si vuole segnalare l’uso sessista e non paritario delle parole è giusto usare il gioco dell’inversione per vedere l’effetto che fa. Ma non solo per le questioni linguistiche: se si fa l’esempio di un uomo che passeggia per strada a cui un gruppo di donne si lascia andare al cat-calling, al pappagallismo, facendo fischi e complimenti, tutti ridono perché sembra assurdo. Ma non è assurdo per una donna. L’inversione, quando provoca quanto ha sperimentato il rettore, fa capire che non c’è ancora equità nell’uso della lingua».
Oltre la provocazione? Come si può usare un linguaggio inclusivo?
«Per la lingua italiana l’uso dei femminili professionali non è soltanto lecito ma è la normalità. Tra ministro e ministra c’è di mezzo soltanto l’abitudine all’uso. Siamo meno abituati perché ci sono più ministri uomini. Linguisticamente si devono usare i femminili professionali, perché tutti i mestieri hanno il loro maschile e il loro femminile. Ripeto, è questione di abitudine, perché i mestieri che “stonano” al femminile sono quelli che un tempo le donne non svolgevano: sindaca, ministra, ingegnera, architetta. Infermiera, maestra, quelli non “stonano” perché le donne hanno sempre fatto quei lavori».
Una questione di abitudine, ma sembra che ci sia anche una questione ideologica che fa resistenza al cambiamento. Non crede?
«C’è una certa visione tradizionalista, che non temo a definire patriarcale, che crede dia maggior prestigio l’uso del maschile per definire la professione».
Ci sono anche donne che chiedono di essere chiamate avvocato, architetto e ingegnere.
«Come non basta essere donne per essere femministe, non occorre essere maschi per essere patriarcali».
Non è facile nemmeno nelle redazioni far passare la regola che i nomi delle professioni devono essere sempre declinati per genere. E sono forse soprattutto le colleghe che scrivono avvocato al posto di avvocata…
«I giornali, più di altri, dovrebbero fare caso a queste cose perché diventano esempi, in positivo o in negativo».
Ci vorrà molto affinché diventi normalità l’uso di un linguaggio più inclusivo?
«In generale è un percorso, un processo. In particolare, le persone debbono arrivarci con i loro tempi. Partendo però da un assunto, l’idea di Aristotele che la società, la polis, è basata sul logos: chi non viene nominato non esiste, o comunque si vede meno, emerge meno. Detto questo, non è l’uso dei femminili nelle professioni che cambia la realtà delle cose o risolve i problemi di sessismo, ma è una ginnastica utile».
Dicevamo che la questione è anche ideologica. Quelli di sinistra dicono ministra e assessora, quelli di destra no: solo al maschile.
«Credo sia inevitabile che la questione assuma connotati ideologici. Dal mio punto di vista di linguista dico che la questione non è di destra né di sinistra, ma poi basta vedere la scelta di Beatrice Venezi o della stessa presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni».
Dicono che non sia importante usare il maschile o il femminile, che le cose importanti a cui pensare sono altre.
«Ma chiedono di essere chiamate al maschile. E la stessa Meloni, come prima circolare del suo governo ha firmato quella che la definisce “il presidente del Consiglio. Una priorità a quanto pare».
In Trentino abbiamo l’assessora all’Istruzione, alla Cultura e alle Pari opportunità che si fa chiamare assessore. Dice anche lei che ci sono cose più importanti a cui pensare.
«Avanti con il benaltrismo. Un assunto anche un po’ farlocco perché il fatto che ci si occupi di come usare nel modo corretto la lingua italiana non impedisce di occuparsi di altre cose. Non è che se la chiamo assessora non riesce ad occuparsi di asili nido, gap salariali o altri temi fondamentali per le donne».
Dice che assessora suona male.
«Siamo a Pasqua: suona forse bene transustanziazione? O tungsteno? E vogliamo parlare di gnais o spinterogeno? Se si vuole scrivere una poesia si scelgono le parole in base a come suonano, ma nel linguaggio comune si usano le parole per nominare le cose e le persone».
Proviamo a rispondere alle solite obiezioni? Perché non si dice giornalisto?
«Perché è sbagliato a livello morfologico. Perché la “a” finale è un suffisso che deriva dal greco. Giornalista è ambigenere e per definire il genere si usa l’articolo. Al plurale sono però i giornalisti e le giornaliste. Purtroppo molte persone erano disattente quando a scuola insegnavano i fondamenti della grammatica».