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giovedì 20 Luglio, 2023

Rella sulle orme di Kafka, lo «Straniero Assoluto»

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Il filosofo è stato vigile sentinella, avvistatore e avvisatore di quel «peggio» che avanza. Altri dovranno continuarne il lavoro

Investigatore del Minotauro, Rella si trovava a suo agio con i mostri di Kafka.
I filosofi hanno sempre indagato gli scrittori perché sanno che l’invenzione di un romanziere o l’immagine di un poeta vanno più dritte al cuore, colgono più precisamente la verità delle cose, «prima» dell’apparato sistematico di un pensiero organizzato.
E così Franco Rella, che si è esiliato dalla scena del mondo, non aveva avuto dubbi nel raccogliere la doppia provocazione di Simone Casalini («Lo spazio ibrido», Meltemi, 2019) che aveva citato Rushdie («A volte ci sembra di cavalcare due culture; altre volte ci pare di cadere fra due sedie») evocando il Kafka perennemente esule. Straniero ovunque.
Le parole di Rella rimanevano impresse, scolpite quasi, anche perché erano state messe a chiusura del libro, come un epilogo e una chiave di interpretazione di quella ricerca sulla frontiera.
«K. nel “Castello” è un migrante – dice Rella – e viene apostrofato dall’ostessa: “Chi è lei?”, per concludere: “Lei è niente”. Ma un niente che è anche pericoloso, perché egli è straniero, è völlig Fremder, totalmente straniero e lo straniero è per definizione un niente e al tempo stesso un pericolo».
Sono andato a rileggere quella pagina del testo originale. Fremd, straniero ma anche estraneo-strano, ricorre tre volte nelle prime pagine di «Das Schloss» come un brivido, un fremito, un triplice rintocco di campane che annunciano il pericolo. Prima è il maestro che, da lontano, intuisce e «sente» K. come straniero. Quindi è lo stesso K. che si riconosce «Fremd»: io qui sono straniero, sono qui solo da ieri. Infine il maestro che lo guarda e suppone: «Non le piace, vero, il Castello? A nessuno straniero piace».
«Schloss», molto più di «Castello» in italiano, evoca la chiusura, la serratura, la catena che impedisce l’accesso. L’incolmabile distanza tra il Potere e i sudditi. L’impenetrabilità del Sistema, della Legge, di Dio.
Anche Pietro Citati, magnifico interprete di «Kafka» (Rizzoli, 1987), vedeva in K. qualcosa in più del Migrante Eterno, del Perfetto Straniero, l’Essere Umano stesso alla ricerca del mistero chiuso, insondabile, inaccessibile del perché della vita e della sofferenza dei mortali.
«È arrivato al villaggio – scrive – in una tarda sera d’inverno, povero, cencioso, con un piccolo sacco da montagna e un bastone: come il viandante della favola, come Ulisse che ritorna a casa e si traveste da mendico… Egli è l’assoluto straniero: straniero nel mondo, straniero a sé stesso: emana un freddo brivido di indifferenza e di solitudine; non possiede nulla – nemmeno il proprio nome, quello che anche i più poveri posseggono».
E la lunga ricerca del nome, dell’accettazione, dell’integrazione, finisce – tragica ironia – solo quando K. muore, e dal castello finalmente arriva il sì al permesso di soggiorno, pur senza diritto di cittadinanza. «E poi, che importava a K. di vivere e di lavorare nel villaggio, nel qui, nel limitato, tra gli uomini…? K. voleva soltanto vivere tra gli dèi».
Così Citati. Kafka, ci ricorda Rella sulla scorta di George Steiner, ha «visto» Auschwitz e ha «visto» l’epoca dei migranti che «costringono a ridisegnare mappe e carte geografiche, a riarticolare lingue e linguaggi. … Solidarietà e senso del pericolo vengono a coesistere, e, quando l’estraneità e il senso del pericolo prevalgono, allora si nutrono le peggiori istanze politiche che oggi piagano l’Europa».
Rella è stato vigile sentinella, avvistatore e avvisatore di quel «peggio» che avanza. Altri dovranno continuarne il lavoro, sulle scogliere della civiltà, per evitare il naufragio ultimo dell’Umano.