L'editoriale
domenica 6 Ottobre, 2024
di Simone Casalini
La pace è diventata un pensiero debole nelle nostre coscienze e una pratica che si è sempre di più astratta dalla vita quotidiana. Esiste, quando resiste, nella formula retorica e moralistica, ma la sua cultura è stata gradualmente smontata. La pace non è solo contrasto e ripudio delle guerre, «prevenzione politica e culturale» (Alex Langer), ma deve essere uno stile di vita. Ci sono conflitti invisibili collocati nelle dimensioni più minute o evidenti della nostra esistenza (il lavoro, il contesto sociale, il condominio, lo sport, le relazioni, il potere) che disattendono molti dei nostri valori e principi. Che rendono accettabile la discriminazione, il sopruso, la violenza, l’equivoco.
La pace – nelle sue molteplici declinazioni: confronto, immedesimazione, costruzione, composizione – ci riguarda e ci chiama a scelte in ogni fase della giornata anche quando crediamo di averla rimossa.
Il risorgere prepotente di conflitti su scala mondiale – con le presenze più o meno esplicite delle grandi potenze che sostengono ciascuna i suoi belligeranti – genera un sentimento ambivalente: paura e indifferenza. Il timore è verso un allargamento dei moti bellici, che possano sovrapporsi in qualche modo con la nostra parabola (economica, sociale). L’indifferenza è apatia: impossibilità di interessarsi alle vite altrui, assuefazione alla violenza come elemento – tra i tanti – della vita. Fino a quando il fragore delle bombe non è percepibile la soglia della coscienza funziona a bassa intensità. Lo spettacolo della vita prosegue.
È angosciante che da quando assistiamo impotenti al conflitto ucraino e all’escalation in Medio Oriente le piazze siano rimaste vuote. Non c’è mobilitazione e anche in Trentino si sono manifestati per lo più sporadici cortei di parte con poche decine di partecipanti. Le piazze vuote sono la perfetta esecuzione della nostra indifferenza, della nostra impossibilità di produrre un pensiero sul mondo. Ucraina, Medio Oriente e i tanti conflitti aperti sono così, al più, interessanti campi di applicazione dell’analisi geopolitica, della radiografia di alleanze che si confermano o si smontano, di calcoli probabilistici. I morti sono usciti dalla nostra visuale, le macerie sono un paesaggio contemporaneo accettato purché non siano le nostre. E non ci rendiamo conto che, in questo modo, ogni giorno compiamo un naufragio. Nel non riuscire a farci carico sinceramente di tutto questo dolore, di non percepire più l’odore della morte che pure per tanti anni, nel secondo dopoguerra, era rimasto tra di noi come monito.
Domani, 7 ottobre, ricorrerà un anno da quando Hamas ha lanciato il suo attacco dalla Striscia di Gaza ai territori limitrofi israeliani, provocando 1.194 morti e rapendo 250 persone (alcune delle quali decedute o uccise successivamente). La reazione di Israele su Gaza ha prodotto oltre 40mila morti e buona parte dei 2,3 milioni di palestinesi residenti è diventato profugo. Il 35% degli edifici (90mila) sono stati distrutti, il 60% dei campi agricoli reso inservibile. Il problema non è solo morire, ma sopravvivere. Secondo un report dell’Onu il 96% della popolazione di Gaza patisce l’insicurezza alimentare. In Libano, dove Israele e i suoi servizi di intelligence hanno quasi azzerato i vertici di Hezbollah, le vittime dall’avvio della guerra sono duemila. Una politica della deterrenza, quella praticata dal governo Netanyahu, che rischia di espandersi sempre di più come una macchia d’olio senza controllo e che l’Iran, grande regista dei vari Islam politici nei territori, si propone di intercettare a sua volta con la violenza. La guida suprema Khamenei ha recitato il sermone del venerdì nella moschea Grand Mosalla – a distanza di 4 anni dall’ultima volta – con un fucile al fianco. Non serve interpretare.
Dopo l’invasione russa in Ucraina la guerra è proseguita incessante: non esistono stime precise, il Wall Street Journal ha di recente ipotizzato un milione di vittime (80mila morti e 400mila feriti in campo ucraino; 200mila morti e 400mila feriti in quello russo). C’è chi sostiene che solo i soldati russi morti siano più di 600mila.
Allargando lo sguardo il Conflict Index 2024 segnala una crescita dei conflitti globali: nel 2023 sono aumentati del 12% rispetto all’anno precedente attestandosi a 147mila con quasi 170mila vittime. Il tutto in un contesto di diritto internazionale calpestato e con l’Organizzazione delle Nazioni Unite (un nome, un paradosso) che ormai si è trasformata in un palcoscenico per leader politici senza ragione. I veti al Consiglio di sicurezza fanno il resto.
E l’Autonomia? Noi nasciamo per prevenire e elaborare il conflitto. Per ragionare intorno al concetto di convivenza, di stare insieme. Come si costruisce società nella differenza, sapendo che questo processo non è mai dato. Ogni giorno questa convivenza si accresce, ogni giorno rischia di deragliare nell’ingiustizia sociale, nella mancata comprensione, nella tentazione etnica, nell’accoglienza negata. Deragliamo anche quando manchiamo di frapporci negli altri conflitti.
Ritornare a manifestare in piazza contro ogni violenza e per una pace intesa come stile di vita, come tensione umana al bene, come assunzione di responsabilità verso le disparità e le disuguaglianze che creano dislivelli inaccettabili e quindi conflitto distruttivo, è allora solo un tassello ma indispensabile per imparare a riconnettere le nostre esistenze in uno spazio pubblico e collettivo, per lasciare le nostre zone di conforto privato, per dirci e dire al mondo che siamo stanchi dei propagatori d’odio e delle loro (s)ragioni. Crediamo sia una posizione che può essere condivisa trasversalmente, senza bandiere di parte, senza ostentazione di buoni sentimenti, ma ponendo al centro la responsabilità verso l’umanità. Un ragionamento che deve nascere dal nostro quotidiano, da Trento prima che da Beirut, perché se non partiamo da noi rimane solo un esercizio di retorica.