La storia
domenica 7 Luglio, 2024
di Anna Maria Eccli
Roberto Rigotto, 82 anni a novembre, è stato un grandissimo calciatore professionista degli anni Sessanta, uno dei migliori attaccanti dell’epoca, giocatore versatile, goleador che se la dovette vedere con Giacinto Facchetti, Tarcisio Burgnich, Sandro Mazzola e persino con la star internazionale Pelè. Famosi i suoi dribbling, da ala sinistra. Nel 1969 raggiunse il traguardo delle 100 partite di Serie B, risultato eccezionale, frutto di talento, costanza e autodisciplina. I non appassionati di questo sport, però, lo potranno conoscere per l’attività commerciale che, in Via Paoli, ha portato avanti sin dal 1978, la Rigotto Sport. Un piccolo negozio, ma ben fornito, di articoli sportivi. Tute, maglioni, guanti, piumini, k-way, tutto con la caratteristica d’essere stato scelto con la competenza dell’esperto che valuta fibre, tagli, estetica, corrispondenza tra bontà e costo del capo. Ma ormai anche questo storico negozio, che ripetutamente negli anni ha portato in città tifosi di Rigotto e giornalisti sportivi, sta chiudendo.
Signor Rigotto, la sua carriera non è stata lunghissima, ma di sicuro è stata talmente fulminante da portarla dalla Serie C, alla serie A. Ci ricorda i passaggi principali?
«Son cresciuto calcisticamente nel Lanerossi Vicenza che, nel 1962, mi mandò a giocare nel Rovereto, all’epoca in Quarta Serie. Segnai 12 reti e la squadra vinse il campionato di Serie D. Dal 1963 al ’65 ho giocato nella Solbiatese, quindi nella Reggina in serie B, e quell’anno i goal che segnai furono 22. Nel 1968/’69 passai all’Atalanta, serie A. Seguirono il Livorno e il Genoa. La carriera la conclusi, nel 1972, nella Salernitana».
La stampa dell’epoca l’ha descritta pieno di talento, con la straordinaria abilità tecnica di creare opportunità di goal per la squadra.
«Sì, ero abbastanza bravo. Quando avevo il pallone i terzini li saltavo, dribblavo i difensori per andare in porta e nessuno mi fermava facilmente».
Il primo successo importante, nel ’65, è stata la Coppa Italia. Indossava la maglia della Reggina. È stata quella la stagione più importante?
«No, tutte le stagioni sono state importanti per me. Ero semplicemente innamorato del pallone. Anche di recente sono venuti da Reggio Calabria per intervistarmi. Ogni tanto succede che passi di qua qualcuno per rimembrare i tempi andati».
Lei è vicentino, di nascita.
«Sì, ed è stato il Lanerossi Vicenza a mandarmi a giocare nel Rovereto, in Quarta Serie, quando avevo più o meno 19 anni. Poi ho girato praticamente tutt’Italia da professionista. A Rovereto ho conosciuto mia moglie, Alice Fait, una tifosa, che seguiva le partite. Purtroppo ora non c’è più. Abbiamo avuto una figlia. Comunque, sommando gli anni da professionista con quelli da allenatore ho giocato fino a quasi 40 anni».
Le grandi passioni hanno sempre bisogno d’una miccia, d’un innesco, il suo qual è stato?
«Ho sempre giocato col pallone, anche per strada, ma a essere determinante, probabilmente, è stato il patronato del seminario di Vicenza presso il quale ho fatto le scuole e che di domenica organizzava tornei. Siccome la mia mamma era morta quando avevo 2 anni, a prendersi cura di me è stata la mia sorella maggiore che era molto preoccupata del fatto che di pomeriggio girassi per le strade di Vicenza senza controllo, visto che allora le scuole erano aperte solo di mattina. Andava giù di brutto nelle punizioni, perché eravamo un gruppo di ragazzini che rubacchiava nei campi. Papà faceva il camionista e, benché non mi avesse mai mollato uno schiaffo, era un tipo autorevole, quando mi diceva “alle sei essere a casa”, alle sei ero a casa. Però chi comandava veramente era lei, mia sorella. Assieme presero la decisione di iscrivermi alla scuola del seminario, l’unica ad offrire una frequenza anche pomeridiana agli studenti, così sarei stato impegnato tutto il giorno. Dal seminario casa mia era distante 2 chilometri, significava che ogni giorno, dal momento che per pranzare tornavo a casa, mi facevo 8 chilometri a piedi, calciando di tutto, sassi, palline, tutto quello che potevo staccare da terra coi piedi. Un giorno, avevo 14 anni, si presentò al seminario l‘allenatore del Vicenza in cerca di forze giovani e mi notò. L’anno seguente, a scuole medie ormai ultimate, arrivarono a casa il dirigente del Lanerossi Vicenza con l’allenatore che seguiva il vivaio per parlare con papà. Da lì iniziò la mia avventura, nei pulcini del Vicenza».
Quali campioni ha incontrato?
«Tanti da non ricordarli nemmeno più. Io non avevo paura nell’affrontarli, ma loro sì perché ero bravo nel dribblarli, anche se, in cambio, mi prendevo gran belle botte alle gambe. Mi hanno marcato campioni come Giacinto Facchetti, terzino sinistro, e Tarcisio Burgnich, terzino destro dell’Inter, poi Sandro Mazzola. Ho giocato anche contro Pelè, quando ero al Genoa, in un’amichevole con il Santos in cui giocavano i più bravi campioni del Brasile».
Forse erano anche tempi in cui il calcio era diverso.
«Sì, lo era; dopo le partite si andava a mangiare tutti assieme, i brasiliani erano i più simpatici e facevano delle belle balle».
Come è stato mettere radici a Rovereto, dopo una carriera in giro che l’ha fatta immortalare come uno dei migliori attaccanti dell’epoca?
«Positivo, mi sono sempre trovato bene, anche se veneti e vicentini sono più brillanti dei roveretani. Ma qui ho tantissimi amici. Certamente, appena arrivato avrei voluto avere un negozio nuovo e più ampio di questo, ma allora c’erano regolamenti comunali molto rigidi, che prevedevano l’esistenza di un determinato spazio tra negozi che trattavano lo stesso genere merceologico. Così ho dovuto accontentarmi di occupare la bottega di abbigliamento sportivo che già esisteva, questa, di Via Paoli».
Ora, con la chiusura del negozio, come pensa di passare il tempo?
«Eh, non certo in montagna a cercare funghi, come facevo con mia moglie. Adesso devo stare tranquillo per la mia salute, ma ho tanti amici con cui dialogare; questo negozio è stato un punto di forza, un ritrovo per tutti quelli che volevano un caffè. Continueremo a prenderlo assieme».