il personaggio
martedì 27 Dicembre, 2022
di Anna Maria Eccli
«Non siamo nati per inventare, ma per scoprire noi stessi»: in questo pensiero troviamo l’essenza della sua filosofia. Renato Rizzi, classe 1951, è l’eretico architetto, insofferente verso una disciplina che «dal secondo dopoguerra in poi ha rinunciato all’Archè, a favore della techne». Nel 2017 gli è stato conferito il Premio della presidenza della Repubblica. Una vita da professionista e da professore universitario alle spalle, in pensione, ha messo a punto l’ardito progetto di formare gratuitamente una nuova generazione di architetti, capaci di provare “meraviglia” come i bimbi, il filosofo, il poeta. Aspro verso la cultura dell’in-forme, Rizzi è discepolo del filosofo Emanuele Severino ma ha affrontato le profondità vertiginose del pensiero ebraico, in particolare del Tanakh, grazie all’amicizia con Carlo Enzo, il biblista censurato dal patriarca di Venezia di cui ha pubblicato l’opera per le edizioni Mimesis.
Architetto, lei è stato premiato persino in Egitto; medaglia d’oro della Triennale, autore del Teatro di Danzica… eppure in Trentino ha realizzato due soli progetti, il Palazzo dello Sport a Trento e il bellissimo restauro della Casa Museo Depero, a Rovereto. “Nemo profeta in patria”?
«Mah, nel 1984 avevo vinto il concorso per la costruzione del Palazzo dello Sport di Trento, ma quel progetto è stato realizzato a stralci e mai finito. Credo che il problema sia strutturale, e non riguardi solo il Trentino per altro: si è affermata una cultura della “socializzazione” alla quale non credo molto. Non mi piace l’abuso della parola “sociale” fino a farla diventare volgarità. Preferisco contrapporle il concetto di “comunità”, parola nobile, per la quale bisogna impegnarsi tutta una vita, studiando, nutrendo modestia e pudore. Siamo all’opposto del “festoso” che contraddistingue ormai le giornate trentine. Per non parlare poi di architettura, una disciplina che è stata ridotta a banale edilizia».
A Rovereto crescono casette anonime, alla Barbie.
«Infatti quello è il modello di riferimento generale che la gente vuole. Un modello in cui non esiste alcun tipo, o livello, di responsabilità. A questo conducono digitale, pubblicità, cultura delle app. Oggi viviamo al centro di due miti. Quello di Narciso, l’Io per eccellenza, innamorato di sé, continuamente preso a specchiarsi in se stesso, privo di cultura, e autoreferenziale. Crede di possedere il vero arbitrio. Il mondo è ormai una moltitudine di individualità fluttuanti attorno ad un nulla. Soggetti lontanissimi dal Sé».
E l’altro mito?
«Medusa, colei che ti pietrifica se la guardi direttamente negli occhi. Perseo la vince solo perché ne guarda l’immagine riflessa dallo scudo di Atena. I Greci ci hanno insegnato che se guardi direttamente la realtà, senza rifletterci, questa ti pietrifica. Ma oggi viviamo nell’epoca dai rapporti binari, zero-uno come il linguaggio dei computer. Crediamo di poter dominare la realtà, quando questa è sempre più enigmatica e misteriosa. Così il pianeta viene letteralmente spianato, dai cosiddetti non-luoghi, privi di profondità. Sono spazi della disperazione, in cui domina l’in-forme. Oggi non ha più senso parlare di cultura greca, latina, tedesca, francese… Adesso siamo nel mondo dei social, il più violento che io possa conoscere, poiché ogni arbitrarietà diventa un assoluto. Ci sentiamo dei demiurghi ma siamo impotenti più che mai. Narcisi votati alla propria condanna, o Meduse che pietrificano il mondo».
Diagnosi tremenda, cosa fare?
«Recuperare la tensione verso il massimo pudore, verso la propria responsabilità. Verso il dispendio di se stessi, sacrificio che la cultura trasformerebbe in arte, disponibilità che coincide con la massima capacità “di fare cose” andando oltre la superficie. Per migliorare il Sé serve tutta la vita. Carlo Emilio Gadda ha lasciato scritto che l’Io è “una caccola del naso”, equivalente al raglio dell’asino “I-ho, I-ho”. La cultura autoreferenziale, l’in-forme, sono anticipazioni della morte. Quando moriremo saremo tutti in-formi, puro solfato di calcio. Ma la vita è ben altro».
Cos’è, quindi, la vita?
«È un dono, un grandissimo dono che riceviamo con la nostra nascita, ma poi lo dobbiamo restituire accresciuto alla fine della nostra vita. È la meraviglia dei bimbi che portano in sé il mondo. L’architettura è quella vita, “arché” prima che téchne. Questo nelle università non lo si insegna più».
La mostra di Roma si intitola “eden-eden”. Allude al dono ricevuto e da rendere? Per questo principio ha fondato a Venezia la NSA, la sua Nuova Scuola di Architettura?
«Sì, nel mio studio. Ci sono 15 ragazzi, spero ci stiano tutti. Non c’è nulla da pagare, non ci sono esami, non ci sono i requisiti, non ci sono lauree. Nulla di nulla, ma puro amore e pudore per la conoscenza, per risvegliare in ciascuno di noi la meraviglia adamica che abbiamo dimenticato. Iniziamo l’11 gennaio».
Ha scelto Venezia come casa.
«È città d’arte, Nietzsche vi vedeva incarnata l’aretè greca, che consiste nella volontà del singolo uomo di dimostrare attraverso le opere il valore della virtù. Questo è Venezia. Penso che l’aretè, la virtù, vada continuamente ricercata, a tutti i livelli, nonostante veda il cancro che corrode Venezia dall’interno, le torme di turisti che la consumano. Come Rovereto, Venezia ha bisogno di anime».
Rovereto le manca?
«Direi che la mia Rovereto non c’è più. Rimane il ricordo della Salita del Dosso di allora, della mia infanzia, mio primo Eden; l’orto, il giardino, il cortile della casa come un balcone proteso sulla città. Sono immagini potentissime che ho nell’anima. Appena laureato sono andato in America a lavorare con Eisenman, contento del viatico di mia madre. “Se fallisco, se torno indietro con le pive nel sacco?”, le avevo chiesto. “Un piatto di minestra ci sarà sempre”, mi aveva risposto. Così sono partito per la missione più dura, formarmi finalmente, dopo gli anni dell’Università.
La forma mentis era di mio padre, falegname pieno di dignità, parlava poco e lavorava molto, ha scolpito altari lignei e restaurato Cristi, sempre pagato poco.
Cosa farebbe oggi per la città?
«Ripartirei dai bambini, dalla loro capacità di meravigliarsi ancora. Credo che solo così una città possa ri-iniziare a pensarsi».