il racconto
sabato 29 Ottobre, 2022
di Redazione
«Io c’ero in quella casa, chi lo nega? C’erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati effusioni, abbiamo avuto un approccio sessuale, sono andato al bagno, ho provato a fermare il sangue che le usciva dal collo… Ovvio che ci fossero le mie tracce in giro. Ma l’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla Giustizia: io non ho ucciso Meredith». A parlare è Rudy Guede l’unico condannato per la morte di Meredith Kercher, studentessa inglese a Perugia, uccisa nella casa che condivideva con Amanda Knox.
Per la prima volta, dalle colonne del Corriere della Sera, Guede si racconta. E cos’è accaduto la sera del primo novembre 2007. Considerati gli sconti di pena, il giovane originario della Costa d’Avorio ha riavuto la libertà il 22 novembre dell’anno scorso. Oggi lavora al pomeriggio in una pizzeria come cameriere e, la mattina, al Centro studi criminologici di Viterbo.
Una nuova vita, al netto della condanna per l’omicidio e per violenza sessuale. «Il mio libro – dice al Corriere – spiega come si arriva all’accusa di violenza, dubbi e incongruenze comprese. La sostanza è che è stato trovato il mio dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti».
Poi, però, Guede scappa. «È vero. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa».