L'intervista
domenica 14 Maggio, 2023
di Sara Zanatta
Cresciuta a Ortisei in Val Gardena, in un ambiente dove l’alpe era di casa – il padre era una guida alpina della Val Gardena in Alto Adige e capo del Soccorso alpino – Ingrid Runggaldier si è dedicata soprattutto alla scrittura di montagna, «un modo – dice – per ordinare quello che sta nella mia testa», appassionandosi alle bellezze delle Dolomiti e alla storia dell’alpinismo femminile, i temi letterari che predilige. Scrittrice, traduttrice e libera pubblicista, autrice di programmi radiofonici e reportage televisivi, oggi vive a Bolzano e parla correntemente il tedesco, l’italiano e il ladino. Un trilinguismo, quello di Ingrid, specchio della ricchezza culturale del Tirolo, terra di confine. È stata consigliera del Trento Film Festival dal 2003 al 2014.
Conosceva Trento, prima di frequentarla per il Festival?
«Frequentavo poco la città. È stato grazie al Festival se l’ho conosciuta da vicino. I sudtirolesi che, come me, erano coinvolti nella manifestazione, venivano a Trento durante le settimane della rassegna. Sono stata tante volte alla Biblioteca della Montagna della Sat, in via Manci, dove andavo a fare le mie ricerche bibliografiche. Ricordo anche il rifugio Bindesi, dove si andava a cena per parlare e confrontarsi dopo gli incontri nelle sale cinematografiche. C’era una forte empatia. Erano i luoghi del Festival, in quelle giornate di montagna e di montagne. Noi, di Bolzano, vivevamo il Festival come se fosse anche un po’ nostro».
Il Festival come esperienza comune tra due provincie differenti?
«Soprattutto da quando, nei mesi di settembre e ottobre, la manifestazione si svolge anche a Bolzano, nella versione autunnale».
Del resto la città di Bolzano è entrata a far parte dei soci del Trento Film Festival negli anni Novanta, aggiungendosi al Comune di Trento e al Club Alpino Italiano, i due soci fondatori.
«È vero. Ma anche prima degli anni Novanta il Festival ha promosso un avvicinamento tra le due città. I punti di contatto tra le provincie di Trento e Bolzano sono così tanti, eppure qualche volta ci sembra di essere lontani. Il Festival ha rappresentato una vera occasione d’incontro culturale. Prerogativa che lo contraddistingue, non solo per quanto riguarda i rapporti tra le due provincie».
Si riferisce alla sua internazionalità?
«Quando ho cominciato a frequentare il Festival ho aperto gli occhi sul mondo e mi sono accorta che è fatto di montagne. Tantissime montagne oltre alle nostre. Le Alpi, i Pirenei, le catene del Nord e del Sud America, l’Himalaya…Le immagini del Festival mi affascinavano come una scoperta. Ho frequentato tanti altri festival, ma nessuno è così internazionale come Trento. È un punto di ritrovo. Anche se non hai appuntamento con qualcuno, sai che vai lì e farai un incontro speciale. Forse dipende anche dalla città, non troppo grande, raccolta, misurata. Durante la rassegna, cammini sempre sulle stesse strade, quattro o cinque vie. Le strade del Festival».
I suoi incontri?
«Persone eccezionali. C’erano i volti più famosi, Reinhold Messner, Kurt Diemberger. E le nuove leve, ricordo in particolare Alex Honnold. Generazioni di alpinisti e scalatori che si incontravano nelle vie del Festival. Poi anche i loro familiari, le persone che stavano vicino agli alpinisti, che li accompagnavano. Penso alla moglie di Hermann Buhl, la ricordo bene. Dall’altra parte dello schermo stavano i registi. Anche quegli incontri erano molto intensi, legati più al mondo del cinema che a quello dell’alpinismo: Giuliano Montaldo, Maurizio Zaccaro, Sabine Derflinger sono i primi che rammento. Li incontravi per caso e in pochi istanti si consolidavano rapporti di fiducia e reciproca stima. Con alcune persone c’era subito feeling, nascevano amicizie. Come con John Porter, lo vedo ancora tutti gli anni».
Di che cosa parlavate?
«Si discuteva di cinema, montagna, avventura e letteratura. Una grande apertura di visione e di sguardi. Il Festival, da quando lo conosco, è sempre stato questo: non solo un ritrovo di alpinisti e registi di montagna, ma luogo di riflessione sulla cultura di montagna. Si respiravano nuovi stimoli e c’era aria di nuove riflessioni, nuove strade, nuovi percorsi non soltanto per il cinema di settore ma verso il cinema in generale».
Quale è la sua idea di cinema e di cinema di montagna?
«Ho sempre dato importanza alla qualità del cinema. Il tema che viene affrontato in una pellicola è importante, ma conta moltissimo la qualità del lavoro registico che lo narra. Perciò ho personalmente inteso il Festival come un vero e proprio festival del cinema. A prescindere dall’argomento affrontato, cercavo la qualità dell’esecuzione cinematografica. A Trento – ricordo – mi appassionavano anche le vecchie pellicole restaurate e mi stupiva la bravura di quei cineasti. C’era davvero grande emozione nel vedere i film del passato, di cui talvolta avevi sentito parlare. Era straordinario poterli ritrovare. Ti succedeva solo al Festival. Avevo poi interesse per i film sull’ambiente. Anche questi li trovavo a Trento. Il Film Festival ha avuto un grande merito: sensibilizzare il pubblico sulle tematiche ambientali, il cambiamento climatico, il problema dei rifiuti lasciati in montagna, il turismo eccessivo ma anche l’abbandono delle terre alte».
E come descriverebbe il suo rapporto con la montagna?
«Come dicevo, è una storia di famiglia. Sono cresciuta tra persone che praticavano la montagna. A differenza di mio padre, non ne ho fatto una professione. Ma la considero come la mia casa, un luogo dove vivo, vado, vengo e torno sempre volentieri. Trascorro le estati nella mia baita sul monte Seceda, in Val Gardena, dove facciamo il fieno e passiamo il tempo con la famiglia e con gli amici. La montagna è parte di me e quando posso ci ritorno, ogni volta che posso. Non ho mai fatto nulla di impegnativo o di pericoloso, non sono un’alpinista ma abito la montagna e faccio escursionismo».
Un modo per prendersi il bello dei paesaggi alpini, senza il rischio di chi scala o di chi cerca l’impresa.
«Non ho mai cercato le difficoltà in montagna. Li ho scritti nella mente i rischi che comporta».
In che senso?
«Crescere con un papà guida alpina e capo del Soccorso Alpino significa vivere accanto ai pericoli della montagna. A casa nostra si trovava la centrale del Soccorso Alpino. Quando si verificava un incidente eravamo sempre i primi a saperlo. Se moriva qualcuno, i parenti delle vittime si recavano da noi. I genitori arrivavano da lontano, spesso le vittime erano turisti, anche stranieri. E la mia mamma, anche lei membro volontario del Soccorso Alpino, stava lì con loro, con i familiari di quei ragazzi. Li consolava, offriva qualcosa, una tazza di tè, qualche parola. Abbiamo conosciuto anche questo aspetto, quello doloroso, gli incidenti che accadevano e che gettavano nella disperazione. Quando si è giovani non si pensa che possa toccare a te. È per questo che i nostri genitori non ci hanno mai incoraggiato ad andare in montagna».
E come si è avvicinata al mondo della scrittura?
«Ho iniziato con lo studio degli alpinisti del passato e poi la mia attenzione si è concentrata sulle figure femminili, le donne di montagna. Un tema che mi appassiona ancora molto, a cui ho dedicato uno dei miei libri più importanti: Frauen im Aufstieg (Donne in ascesa, 2011). Recentemente mi sono appassionata alle Dolomiti, cercando di capire come sono state considerate nella letteratura; un argomento vasto e suggestivo. È una ricerca che mi ha arricchito tanto e mi ha fatto pensare che il modo in cui guardiamo le montagne dipende molto dalle letture che facciamo, dagli autori che abbiamo letto, dalle immagini di montagna che ci sono state presentate».
Come sceglie i suoi temi letterari?
«Qualche volta ho l’impressione che siano loro a scegliere me. Sono molto curiosa, ho sempre avuto un grande bisogno di sapere. Ma sento anche la necessità di condividere le cose che leggo, che trovo, che imparo. Di qui la volontà di scrivere libri. È sempre un’emozione immergermi nei miei argomenti. Quando lo faccio, il resto del mondo sembra scomparire. Entro in una dimensione psicologica affascinante che continua a meravigliarmi».
E cosa l’ha spinta a raccontare la montagna declinata al femminile?
«Mi incuriosiva il fatto che quasi tutte le storie di alpinismo fossero riferite a figure maschili. Ho quindi messo mano agli archivi di montagna per cercare storie femminili e ho scoperto che ce ne sono tante, purtroppo sconosciute. Ho voluto dare voce a queste biografie per non dimenticarle».
Dopo tante ricerche e diversi libri, che hanno caratterizzato la sua attività di autrice e appassionata, ha qualche sogno nel cassetto? Non soltanto letterario.
«Un desiderio ce l’avrei: una specie di trekking… Una camminata lunga un anno per attraversare le Alpi e gli altri monti d’Italia, dall’Alto Adige fino alla Sicilia, senza avere pressioni di tempo, con calma, recuperando la lentezza, rallentare un po’ sulla mia vita e sentire il tempo che passa andando a piedi. Vorrei camminare a lungo su queste montagne per coglierne non soltanto l’altezza ma, diciamo così, anche la dimensione della distanza. Prendo spunto da quella generazione di alpinisti vittoriani che, nella seconda metà dell’800, giunse nelle Alpi e le percorse in lungo e in largo, zigzagando, come facevano i viaggiatori di un tempo».
(L’intervista è contenuta nel volume «Scakare il tempo, 70 anni di Trento Film Festival» (MonturaEditing) che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autrice)
l'intervista
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L’analisi del giornalista che ha di recente pubblicato un manuale per spin doctors dal titolo «Non difenderti, attacca» e contiene 50 regole per una comunicazione politica (imprevedibile e quindi efficace)