l'intervista
sabato 8 Febbraio, 2025
di Gabriele Stanga
Il ritorno di Daniele Groff a Sanremo è più probabile di quello dei Jalisse. È una battuta ma neanche troppo perché il cinquantunenne cantautore, dopo più di vent’anni lontano dai riflettori (l’ultimo disco vero e proprio uscì nel 2004), rivela di stare lavorando su un nuovo progetto, in collaborazione con un altro giovane artista trentino. Del resto pochi mesi fa si sono riuniti anche i fratelli Gallagher (gli Oasis), quindi per Groff che del brit pop in Italia era stato l’ambasciatore, potrebbe essere un segnale propizio. E con Sanremo alle porte, chissà che prima o poi non ci scappi anche un ritorno all’Ariston.
Lei Groff che ricordo ha del suo festival?
«Sanremo è una sorta di istituzione per l’Italia e la nostra canzone leggera. Penso sia una delle poche tradizioni che ci uniscono da nord a sud. È una grande prova, non semplice da affrontare. Io ci arrivai prima con Sanremo Famosi, grazie alla canzone “Daisy” e poi nel 2004, grazie a Tony Renis, che volle fortemente me e la canzone “Sei un miracolo”, anche se non ero così popolare»
E in che modo visse quei momenti?
«Con i miei 25 anni di allora. Non ero consapevole come lo sono i ragazzi di oggi, in quella settimana fu una sorta di delirio, tra interviste, incontri, mille cose che da fuori non si vedono. Mi sentivo un po’, per così dire, drogato, sballottato tra le nuvole. Quando sei su quel palco, le regole non valgono più. Non capita spesso di avere un pubblico così grande guardarti cantare e giudicare la tua canzone».
Ma com’è cambiato il festival in questi anni?
«I ritmi sono più veloci ma non mi sembra ci siano stati stravolgimenti. Negli ultimi anni si è tornati a fare più musica e meno varietà. Vengono riportate in modo aggiornato le tendenze di ciò che la gente produce e ascolta. C’è tanta trap per i più giovani ma anche grandi classici e pop».
Della trap lei cosa pensa?
«Potrebbe essere la prosecuzione di un certo tipo di cantastorie. Pensiamo, con le dovute proporzioni a un Guccini o un Dylan, per cui la musica viene dichiaratamente dopo l’esigenza di raccontare storie e giocare con le parole. Il problema è che tipo di storie si raccontano».
Cosa intende?
«C’è una subcultura molto legata ad una vita difficile in un certo ambiente, un tema che viene dall’America e che da noi diventa quasi una pantomima, un’imitazione al limite della parodia. Poi non tutti sono così, chiaramente, però in linea generale è lo specchio di una società che ha sempre meno voglia di riflettere».
Una caratteristica onnipresente è l’uso dell’autotune. Tanto che un produttore come Rudy Zerbi sostiene che l’intonazione sia un concetto ormai superato.
«È il tema del rapporto tra uomo e macchina Da un lato ha ragione perché con gli sviluppi tecnologici l’abilità di fare le cose è sempre meno necessaria. Oggi non serve più saper fare un pezzo chitarra e voce dall’inizio alla fine ad esempio. Dall’altro lato a me piace la maestria, la fatica che sta dietro lo studio di uno strumento e il padroneggiarne l’espressione».
Degli artisti in gara, invece, chi le piace?
«Non ho ancora sentito le canzoni ma mi piace molto Brunori Sas, poi sono curioso di Cristicchi, Lucio Corsi e Willie Peyote. Sono quelli che possono portare le cose più interessanti».
Lei, invece cosa fa oggi?
«Sono anni che avevo smesso di fare musica e interviste. Quest’anno, però, per la prima volta mi sono messo a lavorare sul serio su un nuovo album. Sto collaborando con un giovane cantautore trentino, Alessandro Zanoner, che mi ha convinto a riprovarci. Mi ha fatto tornare a credere in quello che faccio. C’è anche una grossa casa discografica che si è detta interessata a riproporre tutto il mio catalogo in una nuova veste, per fare poi uscire qualcosa di inedito. Chissà che poi non arrivi un nuovo Sanremo (ride)».
E lei che ha portato il brit pop in Italia, cosa pensa della reunion degli Oasis?
«Avranno finito i soldi (ride). A parte le battute oggi non è più possibile creare icone come quelle di quegli anni. Si è passati da 70 mila pubblicazioni l’anno a 140 mila al giorno. Anche per questo si riprendono vecchi miti, rendendoli forse anche più grandi di quello che erano. Ad esempio lo stesso produttore di Max Pezzali mi diceva che dalla serie su Now Tv e anche dalle parole dei più giovani se ne ha una percezione più grande rispetto al successo che ha realmente avuto».