il racconto di natale
domenica 24 Dicembre, 2023
di Gabriella Brugnara
Una volta l’ho visto, e sono certa che fosse lui. È accaduto un’unica volta, avevo quasi sette anni, ma quella magia continua ad accompagnarmi anche oggi, che di anni ne ho qualcuno in più. Non smette di irrompere a rischiarare i momenti in cui la strada d’improvviso s’inerpica, togliendomi il fiato per stare al passo. O quelli che invece mi portano giù, verso il fondo, che è un po’ la stessa cosa.
Tutto è successo a Fontanarossa, il paese in cui sono nata e ho trascorso la mia giovinezza. Un gomitolo di case fuori dal mondo, a milletrecentoventisei metri di quota, cinquecento anime, più o meno, e una cinquantina di minuti di macchina dal borgo più vicino. Allora, a Fontanarossa ci si poteva arrivare solo percorrendo una stretta mulattiera, che saliva a zig-zag, e si interrompeva bruscamente alla fine del paese, per diramarsi poi in un groviglio di sentieri che conducevano alla parte boschiva e da lì alle montagne circostanti.
Quasi per incanto, uno slargo si apriva sull’unica strada che attraversava l’abitato, per il resto fiancheggiata su entrambi i lati da antiche case in pietra, che sembravano reggersi l’una con l’altra. Su questo pianoro, proprio accanto a casa mia, sorgeva la fontana che dava il nome al paese: due vasche in marmo rosso, luogo pulsante di vita dalle prime luci del giorno alle ultime della sera.
Tutto quello che succedeva passava di là, insieme alle grandi ceste colme di panni da lavare che le donne trasportavano come nulla fosse. Donne forti come e più degli uomini, anche perché gran parte degli uomini, tra loro anche mio padre, era costretta a cercare lavoro altrove, e rientrava non appena possibile.
Se d’estate la fontana era la voce chiassosa di Fontanarossa, dall’Immacolata fino all’Epifania, spenta e coperta di ghiaccio, si trasformava in un grande presepio, alla cui realizzazione partecipava il paese intero. I lavori iniziavano già ai primi di dicembre, con la costruzione di una tettoia che impedisse alla neve di sommergere gli addobbi.
Nevicava infatti molto in quegli anni, ricordo che la scuola si raggiungeva attraverso un sentiero, ricavato tra due muri di neve. Di macchine, al tempo, ce n’erano solo sette –di ciascuna conoscevo a memoria targa e modello– e durante l’inverno rimanevano parcheggiate fuori dal paese, accanto al pullmino di linea, che partiva al mattino alle 5.45 e rientrava la sera alle 19.45.
Quel Natale in cui accadde la magia, da pochi mesi era arrivato a Fontanarossa il nuovo medico condotto con la moglie e i due figli. Il più piccolo, Gianmaria, aveva la mia stessa età e il maestro l’aveva messo in banco con me. Forse l’aveva fatto perché ero una bambina con cui non rischiava di annoiarsi, di quelle che si arrampicano sugli alberi e fanno le scommesse a braccio di ferro con i compagni di classe. Il mio modello era Pippi Calzelunghe, che riuscivo a vedere la domenica pomeriggio in oratorio dalle suore.
Stimata come donna intelligente e capace, per arrotondare, mia madre faceva le pulizie nelle case dei ricchi di Fontanarossa. Tra loro, anche il dottor Ambrosetti le chiese presto di potersi avvalere del suo servizio, proponendole di portarmi con sé, così Gianmaria e io ci saremmo conosciuti meglio.
Dopo tutte le raccomandazioni del caso, a proposito di tutto ciò che dovevo e soprattutto non dovevo fare, un pomeriggio varcai finalmente la soglia della reggia, racchiusa all’interno di un grande giardino. Televisione, lavatrice, mobili lucidi, un enorme divano, ma a colpirmi di più fu il pavimento a specchio, su cui si poteva pattinare con due panni morbidi sotto ai piedi. Della mia infanzia ho ancora nelle orecchie il rumore ritmico del bruschino e nel naso l’odore della varechina che mia madre usava per pulire il legno grezzo del pavimento di casa nostra.
I giocattoli di Gianmaria erano ovunque, ma io, che come mia madre mi aveva soprannominata, ero «la regina della strada», preferivo stare in giardino, dove non mi era sfuggito qualcosa che forse solo Pippi poteva possedere: una vera tenda degli indiani, dotata persino di una porta con la cerniera. Con la fantasia i giochi si moltiplicavano, insieme alle mie esplosioni di gioia affidate a un dialetto italianizzato che colpiva molto la famiglia Ambrosetti. L’espressione «Nente sul pontesel?» diventava, ad esempio, «andiamo sul ponticello», elevando così un anonimo balcone alla dignità di un piccolo ponte.
Il legame tra me e Gianmaria si rafforzò al punto che la vigilia di Natale fui invitata ad unirmi alla loro famiglia nell’attesa di Babbo Natale, che sarebbe passato di là dopo cena. Da noi di Fontanarossa, da sempre a portare i regali era invece Gesù Bambino, che preferiva le ore del sonno profondo, ma si sa, sia Babbo Natale sia Gesù Bambino hanno le proprie regole e, di fronte al mistero, non rimane che accettare.
Nevicava ormai da ore quella vigilia e noi piccoli ci divertivamo a slittare, nonostante i rimproveri dei grandi che ci diffidavano a farlo, perché la strada sarebbe diventata una pista scivolosa. Gianmaria era uno dei nostri, e quando sua madre ci disse che era tempo di rincasare, non mi rimase che presentarmi fradicia. Noi di Fontanarossa certo non possedevamo giacche o scarpe da neve.
La signora Eleonora mi infilò nella vasca da bagno, e fu quello il mio primo bagno in una vera vasca con i rubinetti, e non in un recipiente di plastica da riempire con delle pentole d’acqua calda. Mi asciugò poi con un telo da bagno morbidissimo che aveva riscaldato sul termosifone e mi rivestì con una maglia azzurra e dei pantaloni blu (i miei primi) che erano stati di sua figlia più grande. Per me Babbo Natale era già arrivato in quei gesti premurosi, che non vedevo l’ora di raccontare a mia madre.
Mentre giocavamo in quello che loro chiamavano tinello, all’improvviso si sentirono dei rumori provenire dalla stanza di Gianmaria.
«Shhh, silenzio, sapete che altrimenti Babbo Natale scappa» ci suggerì la signora Eleonora. Non appena la quiete tornò, Gianmaria si precipitò nella stanza e io, ricordando che mia madre mi aveva detto di «non fare la sfacciata», dissi che dovevo tornare a casa.
«Perché non vai prima a vedere se Babbo Natale non abbia lasciato un pensiero anche per te?» mi stuzzicò la mamma di Gianmaria.
«A Sara da Babbo Natale», c’era scritto su un biglietto dorato, incollato su una carta rossa stellata. Conteneva un libro intitolato «Sara Grewe. Reginella prigioniera», il numero uno della mia libreria. «Sara», proprio come me.
«Mamma, ma perché Babbo Natale è così generoso con chi ha già tanti soldi per comprarsi quello che vuole?». Fu questo che le chiesi con rabbia non appena fui di nuovo a casa.
«Ti sembra una domanda da fare, proprio oggi che hai ricevuto tanti bei doni inattesi? – mi rispose con tono deluso – Non tutto si può spiegare, Sara. Ora si tratta di Babbo Natale, ma quando sarai più grande ci saranno altre cose che ti sembreranno ingiuste e ti faranno arrabbiare, e forse non troverai una ragione che le giustifichi. Ciò che vale non è solo quanto vedi e puoi toccare, molte risposte sono dentro di te, dentro ciascuno di noi».
«Non capisco quello che dici».
«Ascolta, a te piace guardare la neve che scende e poi correre nelle strade a giocare. Questo è un dono grande, non è solo tuo, ma se chiudi gli occhi lo potrai far rivivere in ogni momento dentro di te».
Quella credo fu l’unica sera in cui mia madre sospese i suoi lavori di cucito. Mi invitò a sedere sulle sue ginocchia e iniziò a leggere Sara Grewe. Eravamo davanti alla finestra, fuori la neve volteggiava, mentre il fuoco brillava facendo quel bel rumore di quando la legna secca sembra esplodere. A un certo punto, mi mise in piedi sulla sedia, abbracciandomi stretta.
«Ora non parlare e stai attentissima a ogni particolare» mi sussurrò.
Fu un silenzio carico di attesa e di magia.
«Ecco, lo vedi? La vedi quella grande luce rossa che attraversa il cielo? È lui, è Gesù Bambino che sta arrivando. Ora chiudi gli occhi e dimmi: la vedi ancora quella luce?»
C’era quella luce? Non c’era? Eppure, quando guardo dentro di me la sua magia è ancora intatta.