L'anniversario della scomparsa

venerdì 3 Marzo, 2023

Sara Pedri, due anni senza risposte. Il dolore della mamma: «Spiegatemi perché tanta severità»

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Mirella Sintoni ricorda la figlia scomparsa il 4 marzo 2021: «La sento presente più che mai e se non sono crollata è per l’attesa: vogliamo riportarla a casa e confidiamo nelle prossime ricerche»

Settecentotrenta giorni (domani) senza la sua adorata figlia Sara, senza potersi più riempire gli occhi del suo sorriso, senza respirare la sua energia positiva, senza vederla indossare i suoi adorati tacchi. Mamma Mirella Sintoni ha imparato a convivere con il dolore, sostenuta dalla fede e dalla speranza di poter riavere il corpo della sua ragazza. Quella speranza che è diventato sentimento di molti. Di coloro cioè che hanno preso a cuore il caso della ginecologa di 31 anni di Forlì scomparsa il 4 marzo 2021, dopo aver inviato una lettera di dimissioni all’azienda sanitaria di Trento per cui lavorava da pochi mesi, in un ambiente che aveva soffocato la sua voglia di vivere.
Mirella, le prossime ricerche nelle acque del lago di Santa Giustina – lì dove era stata trovata l’auto di Sara – dovrebbero svolgersi in primavera…
«Sì, e confido si arrivi a una conclusione: senza un corpo non si può celebrare un funerale religioso. La nostra continua a essere un’attesa. Se non sono crollata finora è proprio per l’attesa: vogliamo riportare a casa Sara. Che pensiamo appunto sia in quel lago: tutte le ricerche portano lì. Anche ad ottobre scorso i cani hanno fiutato delle tracce utili».
Attorno a lei e alla sua famiglia c’è sempre stata grande solidarietà..
«Sì, a Forlì, nel parco dove è stato piantato l’albero di Sara e dove ci troveremo domani, nel secondo anniversario della sua scomparsa, si sono alternate finora molte persone che hanno imparato la sua storia e che hanno permesso a me, con la condivisione del mio dolore, di andare avanti. E di farlo con forza e con il senso di dover fare tutto ciò che mi è possibile per non far dimenticare questa mia figlia e il motivo della sua scomparsa. Una figlia che sento vicina e presente più che mai nella mia vita».
Anche con il nostro territorio c’è un legame, vero?
«Sì e infatti tornerò presto in Trentino, doveva Sara aveva progettato di vivere e iniziare la sua carriera professionale. Più in particolare in val di Non, per scegliere un meleto, perché come a Forlì e in Calabria, quindi da Sud a Nord passando per la Romagna, ci sia un albero che vivrà connaturato a Sara. Lei che, ne sono sicura, sarebbe stata una brava dottoressa e ginecologa».
Come siete stati accolti qui in Trentino?
«Il ringraziamento è anche per i trentini, per la grande attenzione che hanno riservato al nostro dolore e all’attesa. In particolare il grazie è per Giorgio e Nadia di Nanno che da sconosciuti, comparsi dal nulla, non ci hanno più abbandonati esprimendo la solidarietà e il compianto di tutti i trentini che, contriti e quasi vergognosi per ciò che è accaduto nella loro terra, domani ricorderanno Sara. Anche all’incontro a cui abbiamo partecipato ad agosto scorso al teatro di Tuenno ci siamo sentiti abbracciati da tutti».
Lei parla di trentini «contriti e vergognosi». Ci spieghi meglio.
«Abbassano gli occhi quando ci hanno davanti, è capitato anche a Trento, quando i gestori dell’albergo e del bar dove siamo stati hanno saputo che eravamo i genitori di Sara Pedri. Quasi una vergogna, un disagio, il loro, per non trovare le parole adatte. Noi ci siamo sentiti stretti in un abbraccio simbolico, come se volessero chiederci scusa».
Siete stati a Trento per ascoltare le testimonianze di alcune ginecologhe in tribunale, vero?
«Mi si è accapponata la pelle ad ascoltare le loro parole, a sentire quello che accadeva in quel reparto. Sono rimasta molto male. Sara non era l’unica che aveva manifestato questo disagio profondo per quanto subito sul lavoro. Uno strazio, per me, pensare che anche mia figlia sia rimasta nel suo dolore, non era preparata a tutto quello. Non che nella sua vita non le fosse capitata una delusione o un’incomprensione, lei sapeva cavarsela e difendersi».
Ma non è stato così una volta preso servizio a Trento.
«Pensavamo trovasse la forza che era sua per cavarsela appunto ancora una volta, lei che aveva messo il suo mestiere davanti a tutto, ma solo ora capiamo che era una grossa faccenda, che la situazione in quel reparto era critica. Pensavamo che Sara trovasse un ambiente per spiccare il volo dopo tanta fatica e dopo tanti anni fuori casa e invece non è stato così: solo dopo la sua scomparsa che ha sollevato un putiferio e grazie alle testimonianze raccolte sappiamo cosa avveniva in quel reparto. E poi è stato tutto così veloce che non ci siamo resi conto dell’abisso in cui stava cadendo».
L’ultima volta che era stata a casa, fino al primo marzo 2021, l’avevate vista diversa..
«Si teneva abbracciato lo stomaco per nascondere la sua magrezza, aveva perso il sorriso, si era convinta di non essere più in grado di fare il suo lavoro. Sara non era abituata agli insuccessi. Le parole pesanti, quegli atteggiamenti subiti e il fatto che le avessero fatto togliere il camice, una cosa tremenda, le aveva tutte nel volto, che si era ingrigito. Lei che era un’amante della vita, che adorava i tacchi e i capelli rossi che nell’ultimo periodo non si era più tinta. Lei che si scatenava alle lezioni di zumba, che era così grintosa anche sul lavoro tanto da essere soprannominata “red bull”. Ed è così che voglio ricordarmela. E a pensarci ora è come se le sue corse fossero la consapevolezza della vita corta che l’attendeva».
Ha mai avuto contatti con l’ex primario e la vice?
«No, però nell’aula di tribunale Saverio Tateo, che continuavo a guardare, si è voltato e mi ha fatto un cenno con il capo come a salutarmi, ed è stato educato da parte sua».
Dovessero arrivarle ora delle scuse?
«Le accetterei ma chiederei il motivo di tanta severità, sempre che questo sia il termine adatto. Erano persone di responsabilità, capisco volessero che le cose andassero nel migliore dei modi ma quello non era il migliore dei modi. Non comprendo l’origine, la causa di un simile comportamento da parte di chi reggeva il reparto. Io, di mio, ho sempre cercato di capire e se mi aiutassero a farlo potrebbe essere un buon motivo per accettare le loro scuse».