L'INTERVISTA
martedì 9 Maggio, 2023
di Francesco Barana
«Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti in «Aprile». Sandro Donati, le sue, le pronuncia affilate. Tono di voce monocorde, pensiero profondo: «Di controverso nella vicenda Schwazer non c’è nulla. Controverso significa ambiguo. Mentre qui la verità è una e molto chiara: Alex è stato incastrato. Lo hanno voluto distruggere dopo le sue denunce del 2012, da allora l’odio verso di lui è totale».
Il nome di Donati, 75 anni, da quaranta uomo simbolo della lotta al doping, storico allenatore di atletica leggera e dal 2015 di Alex Schwazer, di riflesso è tornato in auge in questi giorni con la docu-serie di Netflix «Il caso Alex Schwazer», dedicata all’ex marciatore altoatesino, oro olimpico a Pechino 2008, squalificato fino al 2024 per doping dalla Iaaf (la federazione mondiale di atletica) l’8 luglio 2016, a ridosso dei Giochi di Rio, per la positività di un campione di urine prelevato l’1 gennaio di quell’anno e risultato negativo a una prima analisi. Schwazer, già positivo e reo confesso per la positività all’eritropoiteina nel 2012, che gli valse una squalifica di tre anni e mezzo, ha invece sempre respinto con forza la positività del 2016, che Donati definisce apertamente «una storia infame, di manomissione delle provette».
Donati, anche il Tribunale di Bolzano, nel 2021, ha considerato altamente credibile la tesi dell’alterazione dei campioni di urina.
«Il gip di Bolzano, disponendo l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Schwazer, ha motivato l’atto scrivendo di ritenere ‘accertato con alto grado di credibilità razionale’ che i campioni di urina fossero ‘stati alterati allo scopo di farli risultare positivi’. Il gip ha posto l’accento sul fatto che la concentrazione di Dna nel campione risultato positivo fosse eccessivamente elevata per risultare fisiologicamente possibile».
Iaaf e Wada, l’agenzia internazionale antidoping, hanno sempre respinto quanto stabilito dal Tribunale di Bolzano.
«La Wada, che è un’agenzia privata, avrebbe dovuto rimanere neutrale, invece prima si è sostituita alla Iaaf, e già questo è surreale, poi si è presa la liceità di andare contro a un tribunale ordinario che ha indagato per quattro anni. La Wada dal 2016 procede in modo autoreferenziale, opaco, senza che nessuno possa verificare il suo operato. Guardi anche cosa è successo proprio durante il procedimento di Bolzano…».
Racconti.
«Per cercare di provare che il Dna del campione di urina era di Schwazer, hanno confezionato una pseudo-prova, una pseudo-perizia senza che fossero presenti un perito del giudice e un perito della controparte, cioè di Schwazer».
Lei mette nel mirino Wada e Iaaf…
«C’è una commistione tra i due organismi, che dovrebbero rimanere invece separati e distinti. Negli anni si sono scambiati figure dirigenziali e apicali. Capite allora perché è facile sospettare sulla mancata neutralità della Wada».
Sta dicendo che oltre alla piaga del doping, esiste anche una gestione poco trasparente del sistema internazionale dell’antidoping?
«Il sistema è in mano a organismi formali, che fingono di controllare, ma che godono di credibilità e legittimità perché l’opinione pubblica non ha gli strumenti e le informazioni adeguate per valutarli. Organismi coperti dalla compiacenza e dalla complicità delle istituzioni della cosiddetta politica sportiva».
A chi si riferisce?
«Le riporto questo: Robert Koehler, per 18 anni vicedirettore generale della Wada, ha detto che le istruzioni alla Wada su come operare o non operare arrivano direttamente dal Cio, il comitato olimpico internazionale. Capiamo bene che Cio e Iaaf sono veri e propri centri di potere. Ma Koehler ha detto una cosa ancora più grave, che spiega bene come funziona, o meglio come non funziona, il sistema dell’antidoping».
Cioè?
«Ha rivelato che un terzo degli atleti fa uso di doping, significa più del 30%. Mettiamo anche che abbia esagerato, tuttavia ogni anno solo l’1% di essi risulta dopato. Capite bene che tra l’1% ufficiale e il 30% che sostiene Koehler c’è una differenza enorme».
Sta affermando che c’è chi fa uso di doping e non viene colpito, e chi invece è innocente – come Schwazer nel 2016 – e viene incastrato?
«Io dico che delle due l’una: o Koehler inventa, ma non mi sentirei di sostenerlo dato il ruolo che ha avuto per tanti anni, oppure i controlli antidoping non hanno tutta questa credibilità. È lecito domandarselo quantomeno».
Schwazer era reduce già dalla positività del 2012, per cui ammise la colpa. Lei all’epoca non gli fece sconti…
«Alex nel 2012 commise un grave errore, allora la squalifica fu giusta. Ma quella del 2016 è un’altra cosa, è una storia infame, hanno voluto distruggere Alex, fargli pagare il pentimento del 2012, quando ha denunciato i medici coinvolti, tra cui uno della Iaaf. Da allora l’odio verso di lui è totale. Certamente poi hanno colpito Alex anche per colpire me: negli anni non mi hanno mai perdonato di aver offuscato l’immagine di certi dirigenti dello sport».
Sembra che si senta perfino un po’ in colpa nei confronti di Schwazer…
«Sì. Decidendolo di allenare nel 2015, sono diventato involontariamente anche un motivo in più perché infierissero su di lui».
A distanza di anni, cosa prova?
«Un profondo senso di ingiustizia. L’8 luglio 2016 Alex aveva vinto i campionati del mondo di Roma ed era pronto per i Giochi di Rio».
Chi è oggi per lei Alex Schwazer?
«Non più solo l’atleta da allenare, ma un amico».