L'intervista
lunedì 3 Marzo, 2025
Scintille tra Usa e Ucraina, Del Pero: «Trump? Un Al Capone de noialtri. Zelensky trattato come un suddito»
di Tommaso Di Giannantonio
Lo storico analizza l'escalation verbale tra i due leader: «Scontro senza precedenti. Pericoloso imbarbarimento del discorso politico»
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Doveva essere il giorno dell’intesa. Dell’accordo sulle terre rare, a garanzia del sostegno economico e militare a stelle e strisce nei confronti di Kiev. E invece il bilaterale tra il presidente statunitense Donald Trump e il primo ministro ucraino Volodymyr Zelensky, venerdì scorso alla Casa Bianca, ha messo completamente a nudo «l’imbarbarimento del discorso pubblico e politico». Uno scontro verbale «senza precedenti», con tanto di offese e accuse. E concluso con un nulla di fatto, anzi la delegazione ucraina è stata accompagnata alla porta. «Una vera e propria imboscata», considera Mario Del Pero, professore di Storia internazionale e di Storia della politica estera statunitense al Centre d’Histoire dell’Istituto di studi politici di Parigi, Sciences Po. «Gli Stati Uniti — aggiunge il docente (di origine trentina) — vogliono imporre un rapporto coloniale all’Ucraina».
È stato un incontro senza precedenti?
«Non ricordo, sotto i riflettori televisivi, incontri e vertici tra capi di Stato con escalation verbali simili. Credo che sia stata a tutti gli effetti un’imboscata tesa a Zelensky. Mi sembra abbastanza chiaro che dentro i termini vaghi e generali del compromesso tra Russa e Stati Uniti ci sia anche la testa di Zelensky. Era già evidente, lo scontro dell’altro giorno l’ha confermato. Io ho lavorato tanto in archivio, ho visto trascrizioni, ho ascoltato registrazioni di incontri avvenuti dietro le quinte, non sotto i riflettori, e nemmeno in quei casi ho memoria di vertici in cui la parte più forte aggrediva, bullizzava e umiliava la parte più debole, oltretutto con una simile brutalità. Ricordo di aver letto il verbale di un incontro tra Kissinger e Mario Soares, allora ministro degli Esteri portoghese: Kissinger fu molto duro, ma in maniera decisamente più articolata, sofistica, meno grossolana di quanto siano stati Trump e Vance. Dunque, sì, è stato uno scontro senza precedenti. E ci dà la cifra dell’imbarbarimento del discorso pubblico e politico. Questo è un problema perché se il leader della più grande potenza mondiale usa quel linguaggio molto puerile, ma anche molto violento e crudele, poi a cascata i riverberi si sentono dappertutto: si sdogana, legittima e alimenta l’imbarbarimento del dibattito pubblico e politico. La funzione pedagogica del leader politico è molto importante».
Nello scambio di battute c’è un passaggio che l’ha colpita in modo particolare?
«Io ho avvertito un senso di malessere e anche un po’ di indignazione per la brutalità dello scambio e dell’aggressione americana nei confronti di Zelensky. Mi hanno colpito un paio di passaggi. Innanzitutto il linguaggio di Trump da Al Capone de noialtri: “non hai le carte per giocare”. E poi il giornalista amico che si prende beffa di Zelensky chiedendogli se ha un abito: un’umiliazione molto gratuita, quasi neocoloniale, come si tratta il suddito di un Paese dipendente».
A chi parlavano Trump e Zelensky?
«Sono due leader che parlano a più opinioni pubbliche: alle opinioni pubbliche interne, alle opinioni pubbliche internazionali e agli altri capi di Stato dei Paesi direttamente o indirettamente coinvolti. Credo che il messaggio di Trump fosse indirizzato alla sua base: principi, valori e diritto internazionale non mi interessano, io sono qui per difendere gli interessi dell’America. È un messaggio che piace al suo elettorato, al contrario gli aiuti internazionali militari ed economici non piacciano. Sondaggi alla mano, oggi una fetta maggioritaria dell’elettorato repubblicano è critica nei confronti di Zelensky e chiede un disimpegno verso l’Ucraina. E poi credo che Trump parlasse a Putin. È arrivato un chiaro messaggio alla Russia: Zelensky sarà tolto dal tavolo o comunque l’Ucraina capitolerà».
Stiamo andando verso un nuovo ordine mondiale?
«Stiamo accelerando alcuni processi che abbiamo visto negli ultimi anni. Processi di frammentazione dell’ordine globale. Processi in cui si va verso un ordine dominato da poche grandi potenze, soprattutto due: la Cina e gli Stati Uniti. La Russia non è una grande potenza. Gli Stati Uniti assumono una postura neoimperiale: dalla Groenlandia a Panama, fino al Canada. E in questa visione gli alleati europei devono essere, al meglio, un attore subalterno, a cui subappaltare le spese per la difesa dell’Ucraina. E, al peggio, un attore antagonistico, che regolamenta la Big Tech statunitense e ha surplus commerciali con gli Usa. Dunque, all’interno di dinamiche di parziale deglobalizzazione, la vera novità sono gli Stati Uniti, che rompono con gli schemi del passato e riprendono una postura neoimperiale tarda ottocentesca. Tutto questo avviene in un contesto che comunque rimane profondamente integrato in termini di flussi di investimenti e scambi commerciali».
Cosa prevede l’accordo sulle risorse minerarie ucraine? È un accordo che può̀ portare a una pace duratura?
«Conosciamo i contorni generali dell’accordo. L’idea è quella di costituire un fondo su cui vengono trasferiti i profitti generati dall’estrazione di risorse minerarie e di questi profitti una parte consistente – il 50% – dovrebbe andare agli Stati Uniti. In una prima bozza si prevedeva addirittura che, in caso di contenziosi tra le due parti, l’arbitrato sarebbe stato delegato a un tribunale di New York. I dettagli dell’accordo non ci sono, ma i contorni generali lasciano presagire che si tratti di un accordo neocoloniale: si tratta di una cogestione dei profitti di risorse minerarie di un Paese da parte di un altro. Questo va contro una serie di principi stabiliti e codificati a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso: la sovranità nazionale passa anche attraverso il controllo sovrano delle proprie risorse. Invece ora, con la scusa di recuperare i propri aiuti, gli Stati Uniti impongono all’Ucraina un rapporto neocoloniale, di vassallaggio».
C’è chi propone un parallelismo con la conferenza di Monaco del 1938. Ci sono i presupposti?
«Sono molto ostile all’abuso e al fraintendimento delle analogie della Storia. Non credo che la Storia offra analogie e neanche lezioni, ma ci impone a ragionare valutando la pluralità di variabili che convergono a definire una determinata equazione. Quella del ‘38 è una presunta analogia che è stata storicamente abusata. La conferenza di Monaco ci sollecita a fare attenzione e a considerare come le migliori intenzioni possano generare esiti nefasti, ma faccio fatica a immaginare che Putin sia un novello Hitler, anzi non ci credo e penso anche che non abbia i mezzi».
L’Europa sembra relegata a un ruolo da spettatore. Ora come dovrà comportarsi?
«L’Europa si trova a un crocevia molto complicato. Dovrebbe cercare di rilanciare dinamiche di integrazione in un ambito, quello militare e della sicurezza, che storicamente è stato impermeabile ai processi di integrazione europea. Per una serie di ragioni: dal fallimento della Comunità europea e difesa a inizio anni Cinquanta ad altri tentativi. Ma in questo momento, con un disimpegno statunitense dalla Nato, l’Europa ha bisogno di politiche di difesa comune. Politiche inimmaginabili nella struttura dell’Europa attuale, con diritti di veto su decisioni cruciali esercitati da attori come Orbán. Il problema è molto banale: da un lato abbiamo tempi lunghi di realizzazione, dall’altro abbiamo l’esigenza immediata di surrogare eventualmente un disimpegno statunitense. Creare un esercito integrato europeo o anche coordinare le unità d’élite dei diversi Paesi non è una cosa che si realizza dall’oggi al domani».
La corsa al riarmo non è il tramonto del sogno europeo?
«No, non credo, anzi imporrà all’Europa di rilanciarsi. Ma è momento molto complicato per rilanciare il progetto europeo perché i due attori superiori, Francia e Germania, non stanno vivendo una fase semplice. Il sogno europeo deve rispondere a questa sfida, anche accettando politiche di indebitamento».
Chi ci ha guadagnato dallo scontro Trump-Zelensky?
«Sicuramente ci abbiamo perso tutti. Forse ci guadagna Putin. Però, ripeto, credo che si sopravvaluti la forza di Putin e della Russia, un Paese che ha un Pil pro-capite infinitamente più basso rispetto a quello dei Paesi più sviluppati e dipendente dalle proprie risorse naturali, con tassi di inflazione elevatissimi e un’economia oramai piegata alle esigenze della guerra. Questo non implica che si debba sottovalutare la minaccia russa, tutt’altro».
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