L'intervista
mercoledì 26 Febbraio, 2025
di Simone Casciano
L’Eraldo Affinati insegnante e l’Eraldo Affinati scrittore sono due anime impossibili da scindere. Gli insegnamenti del primo prendono citazioni e immagini dalle opere del secondo o da quelle dei tanti maestri letti nel corso di una vita. Pur essendo di Roma, quando parla è un fiume carsico che trae la sua forza da innumerevoli acquiferi di conoscenza e apre la strada a nuovi torrenti di idee. Un’opportunità per chi lo ha potuto ascoltare nel corso del Dies Academicus organizzato dall’Istituto Superiore di scienze religiose Romano Guardini di Trento ieri sera, in una prolusione sul tema «La responsabilità della parola», e per chi lo ascolterà questa sera alle 18 alla mensa del Punto d’Incontro in via Rosmini dove parlerà dell’esperienza della scuola Penny Wirton. Proprio lui, assieme alla moglie Anna Luce Lenz ha fondato la prima scuola gratuita per l’insegnamento dell’italiano per persone migranti a Roma, una fiammella di speranza divampata in altre 64 scuole in tutta l’Italia e che rimette ancora una volta al centro l’importanza della parola, prima negata, poi conosciuta e quindi liberata. Di tutto questo Affinati ha parlato anche intervenendo al Forum del «T Quotidiano».
Affinati cos’è per lei la «responsabilità della parola» all’epoca di Trump e della post-verità, in cui la parola non ha più fondamento?
«Quando mi è stato chiesto di fare questo intervento ho deciso di mettere al centro il ruolo della parola a partire dalla mia duplice figura: scrittore e insegnante. Figure che non sono alternative, ma in armonia tra di loro. Perché sono entrambe responsabili della parola e in qualità di educatore vivo direttamente la rivoluzione digitale che stiamo esperendo. Una rivoluzione che vedo negli occhi dei miei studenti, di cui da una parte colgo gli aspetti positivi, dall’altra però sono conscio del rischio a cui andiamo incontro. Non dobbiamo avere atteggiamenti precostituiti o ideologici, ma porci in maniera conoscitiva. La dimensione tecnologica ci ha aperto opportunità conoscitive mai viste prima. La risposta alle nostre domande è a portata di click, ma dobbiamo chiederci che tipo di risposta è. Si tratta di una mera informazione che non diventa necessariamente conoscenza. A fare la differenza è l’esperienza. Se si ha esperienza profonda della realtà, si comprende che l’informazione è solo lo stadio iniziale della conoscenza, che poi si deve andare a fondo, ricercare le fonti, legittimare la parola sulla base dell’esperienza».
Questo la rende più vera?
«Se viviamo di parole in libertà, gratuite, rischiamo di essere sterili nella comunicazione, di non incidere. Noi dobbiamo fare in modo che tutto quello che diciamo sia vincolato all’esperienza che abbiamo avuto. I ragazzi percepiscono lo smarrimento di quegli adulti che non hanno una vita tale da giustificare le parole che dicono. I vecchi maestri dicevano che ogni azione deve essere legata al pensiero, mai senza. Mai il solo pensiero, sennò è solipsismo, ma nemmeno solo l’azione, altrimenti è puro istinto. La tragica storia del ‘900 ci dimostra il rischio di questa involuzione. La frontiera digitale ci richiede una responsabilità della parola ben diversa di 20 anni fa. Noi dobbiamo affermare una parola che sia fondativa della realtà, e quindi trovare azioni concrete sul territorio capaci di rendere le nostre parole vere e autentiche. Per questo nella lezione faccio riferimento alla Shoah, uno dei miei temi fondanti, ripercorrendo il viaggio da Venezia ad Auschwitz fatto da tanti deportati, che ho descritto nel mio libro Campo del Sangue , e che era destinato anche a mia mamma se non fosse riuscita a fuggire. Mia madre fu catturata perché mio nonno era un partigiano delle brigate Garibaldi. Lui fu fucilato il 26 luglio del 1944, lei il 2 agosto riuscì a fuggire dal treno alla stazione di Udine, aveva solo 17 anni. Sono legato in modo autobiografico a questi temi e questo dà verità alla parola».
Sembriamo vivere in un contesto di irresponsabilità della parola.
«E questo mi preoccupa, pensando ai giovani. Sui social vedo un liberi tutti apparente, per cui si pensa di poter insultare qualcuno senza dover pagare il prezzo del risarcimento nel caso si commetta un danno. Sarebbe giusto affrontare le conseguenze del proprio insulto, ma i social danno l’illusione di poter passare indenni da un’azione negativa. Dal punto di vista educativo è deleterio, significa sganciare l’azione dall’impegno educativo quotidiano. Altro concetto importante su cui riflettere è la libertà. La cultura del ‘900 ci ha illuso che la libertà sia il superare dei limiti, ma non è così. La vera libertà è l’accettazione del proprio limite, quello è l’atto liberatorio. Nel momento in cui si delimita il campo d’azione si diventa liberi, felici di quello che si sta facendo. Vedo tanti esempi di ragazzi al di fuori di questo schema di libertà che mi danno speranza»
Per esempio?
«I ragazzi e le ragazze delle scuole Penny Wirton, che sono 65 in tutta Italia. Molte di queste scuole si basano sull’insegnamento agli immigrati da parte dei ragazzi italiani formati come piccoli docenti. Attraverso i percorsi di alternanza scuola lavoro mettiamo insieme adolescenti immigrati e italiani, momenti formativi e di vero incontro che ci danno speranza. Vi racconto una storia. Una coppia di genitori era preoccupata perché il figlio aveva frequentazioni neo fasciste. Me lo hanno mandato e io l’ho messo affianco a un ragazzo egiziano appena arrivato, vivendo la piacevole sorpresa di questi due giovani, che per posizioni politiche dovevano essere contrapposti, trovare un terreno comune grazie al calcio. Erano gli anni di Salah alla Roma e tra romanista ed egiziano hanno costruito un dialogo a partire da lì. Dobbiamo avere un atteggiamento di sfida dei pregiudizi, ma mai per contrapposizione».
Ecco come sono nate le Penny Wirton?
«Dalla mia esperienza di insegnante. Quasi 20 anni fa, insegnavo alla Città dei ragazzi. È una comunità educativa alle porte di Roma concepita come una “boys town”, una comunità governata dai ragazzi stessi. Invece di metterli in orfanotrofio li si rende protagonisti. Una pedagogia dell’autogoverno che mi stupì profondamente quando andai a insegnare lì. Mi ci avvicinai conoscendo 3 ragazzi afghani che giocavano a basket, mi portarono alla Città dei ragazzi, mi piacque subito, capii che potevo fare una scuola diversa dal solito. Ebbi un primo contatto forte con l’immigrazione, diventai amico dei ragazzi e mi recai con loro nei paesi di origine: Marocco, Gambia, Romania. Al mio ritorno, mi confrontai con mia moglie e nel nostro piccolo decidemmo di fondare la prima scuola Penny Wirton, prendendo il nome dal protagonista del romanzo di Silvio D’Arzo, autore su cui entrambi ci siamo laureati. Una scuola rivoluzionaria perché non costruita attorno al professore e alla classe, ma in rapporto uno a uno. Un’idea che è cresciuta anche solo grazie al passaparola, all’incontro umano. Oggi abbiamo migliaia di studenti e ci sentiamo responsabili di tutti. Presto a Milano apriremo una seconda Penny Wirton negli spazi della Feltrinelli alla Stazione Centrale. Un’operazione dal grande valore simbolico nel clima di questi tempi. L’immigrato non va né idealizzato né criminalizzato, ma va conosciuto. E quando li conosci trovi il bene e il male, perché sono umani come tutti noi».
Come sono accolte le Penny Wirton?
«Quando si va nei territori, ci si rende conto di quanto le categorie tradizionali vengano messe alla prova. Sul campo si incontrano realtà sorprendenti e persone molto diverse tra loro. Esiste un’Italia generosa e propositiva, ma questa disponibilità si manifesta soprattutto nei confronti delle persone con cui si entra in contatto direttamente. Dovremmo superare la logica degli schieramenti contrapposti, il pensiero rigido del “o con me o contro di me”. Ogni anno, con le scuole, ci riuniamo per condividere esperienze e raccontare storie. Ricordo che una volta, a Varese, qualcuno mi disse: “Lo sai che da noi a insegnare ci sono anche i leghisti?” Incredulo chiesi come fosse possibile. Mi risposero: “Perché dicono che vengono ad aiutare il loro amico nigeriano”. Questo dimostra che non si tratta più di immigrazione vista in modo astratto o demonizzato, ma di rapporti concreti: l’amico conosciuto in fabbrica, il collega di tutti i giorni. Quando superiamo le barriere e incontriamo davvero le persone, tutto cambia. Dobbiamo andare oltre le divisioni, oltre i colori delle magliette, e lavorare insieme. Alla scuola Penny Wirton i volontari hanno background molto diversi, con motivazioni politiche, religiose o personali differenti. Eppure, sono uniti da un obiettivo comune: aiutare».
Ci racconta qualche esempio di questo?
«Ne porto due. Mohammed Jan è un ragazzo afghano con qualcosa di speciale. Fin dal primo momento, notai in lui un’attitudine da leader: cercava di riunire gli altri intorno a sé. La sua storia è incredibile. Era arrivato a piedi da Kabul fino a Roma, attraversando Pakistan, Iran, Turchia e Grecia. Al porto di Patrasso si era nascosto sotto un tir, aggrappandosi alle sospensioni, per riuscire a raggiungere Venezia. Un viaggio drammatico, simile a quello di molti profughi. Oggi, Mohammed è un uomo di successo. Vive a Roma, è diventato imprenditore nel settore del sushi e partecipa ai corridoi umanitari di Sant’Egidio, aiutando altri afghani a trovare rifugio in Italia. Quando gli ho fatto notare il suo incredibile percorso – da analfabeta nella sua lingua madre a uomo d’affari che parla e scrive in italiano – ho visto in lui un orgoglio che va oltre la realizzazione personale. Si è sposato, ha costruito una famiglia, ma il suo successo non è solo per sé stesso. Non ha dimenticato chi è rimasto indietro, sotto il regime talebano. Grazie alle sue borse di studio, molte donne afghane riescono ad arrivare in Italia e a studiare alla scuola Penny Wirton. La sua è una storia straordinaria, un successo che non si ferma all’individuo ma diventa collettivo. Un’altra storia che mi viene in mente è quella di Alì Ehsani, che era un mio studente afghano alla Città dei Ragazzi e oggi è uno scrittore con due libri pubblicati da Feltrinelli. Ricordo che in classe leggevamo i Malavoglia di Verga, libro francamente un po’ noioso, eppure lui seguiva con attenzione e mi disse: “Alla fine i proverbi del vecchio ‘Ntoni sono molto simili a quelli di mio nonno a Kabul”. Allora aveva ragione Rigorni Stern quando diceva che “siamo tutti paesani”. Se ci mettiamo a scavare, se abbiamo voglia di parlarci, troviamo radici comuni».
L’Affinati lettore cosa predilige?
«Sono un avido lettore. Penso innanzitutto a Tolstoj, il mio romanzo d’esordio si intitolava Veglia d’Armi. L’uomo di Tolstoj. Quando ancora non sapevo cosa fare della mia vita fui subito attratto da quest’uomo, non solo l’autore di Guerra e Pace, ma anche il fondatore di una scuola per bambini bisognosi. Avevo dentro di me questa doppia natura e la ritrovavo in lui. I miei riferimenti letterari sono stati, prima di tutto, i grandi russi: Tolstoj e, soprattutto, Dostoevskij, che per me è stato decisivo. Da lì, il percorso mi ha portato alla letteratura americana, che è stata altrettanto fondamentale: Hemingway e Faulkner su tutti. Tra gli autori più recenti che amo, ci sono Cormac McCarthy, Richard Ford e Isaac Singer. Da insegnante di lettere, poi, ho vissuto esperienze straordinarie con i miei studenti. Lavoravo con ragazzi del professionale, molti dei quali non avevano mai letto un libro in vita loro. Eppure, insieme, siamo riusciti a leggere pagine intere dei Promessi Sposi, ed è stato bellissimo. Le nostre erano vere e proprie letture comunitarie: leggevamo insieme, riassumevamo, analizzavamo le sequenze, rispondevamo a questionari. Non ci limitavamo a studiare I Promessi Sposi, li vivevamo. Un altro autore fondamentale, di cui si parla troppo poco in Italia, è stato Fenoglio, secondo me superiore a Calvino. Il sergente nella neve di Rigoni Stern era molto amato dai miei studenti. Ricordo un episodio speciale: leggendo quel libro, due ragazzi scoprirono che i loro nonni avevano combattuto su fronti opposti nella Seconda guerra mondiale. Uno, abruzzese, aveva un nonno alpino; l’altro, moldavo, un nonno nell’esercito sovietico. All’improvviso, un evento lontano nel tempo e nello spazio si è fatto presente, dentro la nostra classe».
la ricerca
di Redazione
La ricerca ha coinvolto nei laboratori del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Università di Trento, a Rovereto, 42 coppie di partecipanti per un totale di 84 persone, di età compresa tra 18 e 35 anni. Metodologia e risultati sono descritti sulla rivista scientifica Neuroimage