la ricerca
martedì 31 Gennaio, 2023
di Marco Ranocchiari
Con i sentieri di montagna sempre più frequentati, pur di evitare di imbattersi nell’uomo i mammiferi delle Alpi diventano più notturni, mentre orsi, cervi e camosci si rifugiano in aree sempre più impervie, anche a discapito delle loro necessità ecologiche. Eppure, nonostante le abitudini stravolte, almeno in Trentino occidentale la maggior parte delle specie risulta stabile e in alcuni casi anche in crescita. A sostenerlo è un nuovo studio del Muse (Museo delle scienze di Trento) e dell’Università di Firenze, pubblicato sulla rivista internazionale Ambio, che analizza la risposta di otto mammiferi (orsi, volpi, cervi, caprioli, camosci, lepri, tassi e faine) alla frequentazione umana nell’area del Parco naturale Adamello-Brenta.
Analizzate 500mila foto
Gli studiosi hanno analizzato oltre 500 mila foto scattate dal 2015 al 2021, nei soli mesi estivi, da una rete di sessanta fototrappole posizionate sia dentro che fuori i confini dell’area protetta. Forse prevedibilmente, la specie più fotografata è di gran lunga l’uomo, che appare nel 70% degli scatti. «Un tasso di passaggio sette volte superiore a quello della specie selvatica più comune nell’area, la volpe, e addirittura 70 volte superiore a quello dell’orso», spiega Marco Salvatori, dottorando all’Università di Firenze in collaborazione con il Muse e primo autore dell’articolo. Altro fattore significativo: «Il passaggio delle persone non differisce tra le foto-trappole presenti all’interno del Parco naturale Adamello-Brenta e quelle poste al di fuori, dimostrando, come prevedibile, una potenziale pressione anche all’interno dell’area protetta».
Com’è cambiato l’ambiente
Negli ultimi decenni, spiega Salvatori, l’ambiente alpino è molto cambiato. «Da un lato ci sono stati fattori positivi per le specie che abbiamo studiato, come l’aumento della copertura forestale, il livello di protezione legale, la pratica venatoria impostata con una sostenibilità maggiore rispetto a mezzo secolo fa, la fine della persecuzione di alcune specie da parte di allevatori e contadini. In territori come il Trentino hanno avuto un peso anche i progetti di reintroduzione di alcune specie come l’orso. Dall’altro lato, però, ci sono fattori estremamente dannosi: i fondovalle hanno raggiunto un grado estremo di urbanizzazione, mentre le infrastrutture sempre più diffuse costituiscono delle barriere che contribuiscono alla frammentazione degli habitat».
Tra i fattori impattanti c’è anche il risvolto inaspettato di un cambiamento positivo, la maggiore sensibilità verso gli ambienti naturali, che ha portato a un enorme aumento di visitatori ed escursionisti. «Negli Stati Uniti la frequentazione delle aree naturali è aumentata dell’800% in sessant’anni — aggiunge il dottorando — Non abbiamo dati specifici per l’area in studio, ma verosimilmente i numeri sono paragonabili e sono in costante crescita».
Gli effetti sulla fauna
Essendo la rete dei sentieri molto fitta nel territorio analizzato, la presenza umana è distribuita sostanzialmente su tutti gli ambienti e a tutte le quote, con poche eccezioni. «Gli animali percepiscono gli umani un super-predatore da cui cercano di stare alla larga — prosegue Salvatori — e per questo mettono in atto tutte le strategie a loro disposizione per minimizzare le probabilità di incontro». Mentre i mammiferi più grandi tendono ad allontanarsi sempre più dalle aree frequentate, lepri e mustelidi non disdegnano gli spazi aperti tipici delle aree più antropizzate. Gli adattamenti però, si legge nell’articolo, sono tutt’altro che «gratuiti» per gli animali: essere attivi di notte o in aree più impervie implica maggiori difficoltà di movimento, una regolazione non ottimale della temperatura corporea e altri fattori di stress che possono avere effetti negativi sul lungo termine, anche in virtù del fatto che la frequentazione delle montagne sembrano destinata ad aumentare ulteriormente.
Le possibili soluzioni
Dal momento che attirano più visitatori, paradossalmente, è proprio nelle aree protette che la pressione sugli animali è maggiore. «Il turismo naturalistico è un’attività che è sempre stata pensata come sostenibile per la fauna e l’ecosistema, e sicuramente è un modo per spingere le comunità locali a supportare la frequentazione di aree protette — spiega Salvatori — Ma può avere un impatto indiretto molto forte». Una contraddizione che si potrebbe risolvere con un’ampia gamma di strategie, attuate in molte aree protette del mondo e anche in Italia, come nel Parco Nazionale d’Abruzzo. «Si potrebbe limitare l’accesso in determinate aree o in certi periodi dell’anno più critici per alcune specie. Definire all’interno del parco aree in cui l’accesso umano è libero, altre in cui è regolamentato e altre ancora in cui è completamente impedito, per tutto l’anno o in alcuni periodi. Difficilmente una zonizzazione, che può essere pensata in vari modi, può inficiare il turismo o altri aspetti socioeconomici, e potrebbe aiutare a creare aree di rifugio per la fauna. La nostra ricerca, come altre dello stesso tipo, potrebbe essere un modo per pensare fino a che punto vogliamo arrivare, a come continuare ad agire per la sostenibilità».